PROLOGO
Più ti guardo e più penso a quello che è stato, a quello a cui siamo entrambi sopravvissuti.
Sono passati cinque anni ormai e in questa casa, grande come un francobollo a paragone delle immense tenute che abbiamo lasciato, ho compreso che cosa significa essere davvero felici.
Non riconosco nemmeno quella che ero prima di incontrarti. Se la immagino allo specchio, la superficie mi restituisce una fanciullezza fumosa, ignara di quello che la vita le avrebbe riservato. Piango la me di quei giorni, in balìa di un lutto troppo dilaniante da sopportare, di un senso di colpa troppo forte da arginare e di un amore troppo grande da contenere. Tuttavia, non ho rimpianti, rimorsi, non mi pento di un solo istante, perché questa pura felicità che ci avvolge oggi è frutto anche dei patimenti.
Il sole inonda il giardino, accarezzando con morbidi raggi la calendula, il biancospino e le primule, timide macchie gialle fra l’erba da tagliare. Giornate di sole così qui non capitano spesso e vanno godute fino in fondo.
Prendo la tovaglia e la stendo sul prato, mentre tu, con la fronte aggrottata e gli occhi che brillano, stai chino sulla scrivania dello studio. Ti vedo attraverso le finestre, pensieroso e commosso. Alzi appena lo sguardo e, inevitabilmente, sorrido.
La brezza leggera sospinge il mio abito, bianco come le mura smaltate del nostro angolo di paradiso. Un’ape curiosa ronza poco distante per poi andare a infilarsi in un narciso in fiore. Indugia, facendo capolino dalla campanella ben aperta, poi si libra verso l’arnia in fondo al prato.
Torno ad alzare gli occhi. Mi guardi, hai la penna a mezz’aria e mille parole che scorrono fra noi, trapassano i vetri e lambiscono labbra e orecchie come baci leggeri e giuramenti d’amore.
SETTE ANNI PRIMA
CAPITOLO 1
Richard
Polesden Lacey, Surrey, 1814
«Phèdre, dove sei finita?»
Sentii Charlotte chiamarmi a gran voce, ma anche questa volta la ignorai di proposito, continuando a potare il mio albero di limone. La serra di Polesden Lacey era ampia e rigogliosa, ricca di piante esotiche provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto. Era la mia personale opera d’arte, che curavo amorevolmente tutti i giorni e, all’occorrenza, riusciva a tramutarsi in un rifugio perfetto: nascosta fra le fronde, nessuno mi avrebbe mai scorta.
Non avevo voglia di affrontare quella giornata, volevo starmene ancora un po’ lì, immersa in quella lussureggiante foresta.
«Phèdre, accidenti! Non sei ancora pronta?» Mia sorella Charlotte mi sorprese alle spalle, districandosi fra i rami fitti di un bellissimo oleandro in fiore. Nonostante fosse visibilmente indispettita, sembrava come al solito brillare di luce propria. I capelli biondi ben acconciati e gli occhi verdi le conferivano un aspetto etereo e regale. Che invidia!
«Sono arrivati, e tu sei ancora tutta sporca di terra» sbottò, cercando di togliermi qualche foglia dai capelli mentre io la guardavo. Dovette, tuttavia, rinunciare quasi subito. Le avevo intrecciate per bene alle ciocche, era una cosa che mi piaceva fare spesso anche con i fiori.
Più grande di me di tre anni, Charlotte era quella giudiziosa e responsabile fra noi due, io ero più svogliata e per nulla incline a seguire le regole.
La maggiore delle sorelle Greville era indubbiamente molto bella e, durante il debutto a Londra, appena qualche mese prima, aveva suscitato l’interesse di molti rampolli della buona società. Alla fine, contro ogni preavviso e dopo innumerevoli rifiuti, quella che aveva accettato era stata la proposta di matrimonio di lord Fitzwilliam Barton, IX Conte di Essex.
«Devi andare subito a prepararti, non possiamo farli aspettare troppo. Papà si infurierà e a giusta ragione!» mi rimproverò ancora Charlotte. Sbuffai, lanciandole un’occhiata che avrebbe potuto incenerire chiunque. Mia sorella, però, era abituata a reggere il mio sguardo particolare e i miei occhi ipnotici – il destro ceruleo, l’altro di un nocciola intenso -ormai non le facevano quasi più effetto.
Rassegnata al mio destino, la seguii fuori dalla serra.
«Non sei più una bambina, Phèdre…» cominciò di nuovo, ma non le diedi modo di proseguire.
«Non serve che me lo ricordi ogni santo giorno. So badare a me stessa.»
Lei si voltò a guardarmi corrucciata, mentre procedevamo lungo il sentiero di ciottoli bianchi dirette all’edificio principale della tenuta.
Polesden Lacey copriva diversi ettari di campagna e si estendeva a perdita d’occhio avvolgendo le colline del Surrey come una bellissima trapunta. Noi abitavamo la casa patronale: un palazzo di recente costruzione, alla moda e all’avanguardia in fatto di ultime tecnologie. Era maestoso, candido e in stile classico. Adoravo viverci, ma purtroppo mio padre aveva deciso che, in qualità di sorella maggiore, sarebbe spettato in dote a Charlotte, insieme a diversi altri terreni e proprietà di pregio; io invece avrei portato con me da sposata Chatsworth House, la tenuta della famiglia di mia madre, nel Derbyshire. Era una residenza magnifica e vi avevamo trascorso tutta l’infanzia nell’attesa che Polesden Lacey venisse ultimata. Si trattava del posto che preferivo al mondo, soprattutto perché mi ricordava terribilmente lei. Non avendo figli maschi, nostro padre aveva ovviato al problema tramutando in dote una possibile eredità perduta. Così facendo, tutto il patrimonio dei Greville sarebbe stato diviso fra noi due, per poi confluire nelle tasche dei nostri mariti.
Salimmo in fretta i pochi gradini che ci separavano dal corridoio che portava all’ingresso principale e subito udii delle voci provenire dal grande salone. Mio padre stava intrattenendo gli ospiti in vista del nostro arrivo.
«Adesso fa’ piano. Devi darti una sistemata prima che ti veda qualcuno» sussurrò con enfasi Charlotte, mentre io alzavo gli occhi al cielo. Voltammo l’angolo svelte per raggiungere lo scalone di marmo che portava al piano di sopra, quando mia sorella si bloccò di colpo e io quasi andai a sbattere contro la sua schiena.
«Salve, milord…» balbettò, visibilmente in imbarazzo.
Appena riuscii a tornare stabile sulle mie gambe, l’affiancai per capire con chi stesse parlando. Un giovane sulla ventina, con la postura fiera e la divisa militare, stava di fronte a noi guardando entrambe divertito. Era alto, con le spalle larghe edall’aspetto piacevole.
Ero talmente impegnata a raccogliere con lo sguardo ogni dettaglio, che mi chiesi solo in un secondo momento perché gironzolasse indisturbato in casa nostra. Come c’era da aspettarsi, lui dedicò molta più attenzione a mia sorella che a me.
«Miss Greville, suppongo» disse, dopo un attimo di esitazione.
«Quale delle due cercate?» intervenni, affiancando Charlotte che lo guardava come una statua di sale. A quel punto, lui fu costretto a voltarsi verso di me. Quando gli occhi azzurri incontrarono i miei, colsi un guizzo di stupore. Facevo spesso quell’effetto a chi mi vedeva da vicino per la prima volta. Per anni lo avevo considerato come un atteggiamento dettato dal disgusto, poi avevo capito che quel difetto poteva forse amplificare un fascino ancora acerbo.
Lui si passò le dita sulla mascella forte, coperta da una leggerissima barba. «Con quale delle due sto parlando?» Doveva aver intuito di avere di fronte entrambe le sorelle Greville.
«Io sono miss Charlotte Greville e lei è mia sorella, miss Phèdre, milord.»
Charlotte sembrava sempre più in imbarazzo, io invece non ero per nulla intimorita dalla sua curiosità, dalla situazione, dal mio aspetto poco consono e dal suo sguardo divertito.
«Lord Northampton, miss. Ma potete entrambe chiamarmi Richard» disse con un inchino.
Richard.
Richard Hale, VIII Marchese di Northampton.
«È un onore fare la vostra conoscenza, milord. Vogliate però scusarci, mia sorella ha bisogno di prepararsi per…» balbettò Charlotte, interrompendosi quasi immediatamente. Forse voleva finire la frase dicendo che avrei dovuto essere pronta per incontrare lui e la madre, ma la cosa era del tutto inutile ormai. Questo non fece che amplificare il sorriso di lord Northampton.
«Che peccato…» Si finse dispiaciuto, passandosi distrattamente le dita nei capelli biondi sistemati in ciocche fiammate, come le statue degli antichi romani, anche se qualcuna era sfuggita al controllo del proprietario e se ne stava per conto suo, un po’ spettinata. Quel disordine appena accennato lo rendeva decisamente più interessante.
«Peccato, milord?» Sfuggii alla presa ferrea di Charlotte, che mi strizzava una mano nel disperato tentativo di dissuadermi dal proseguire la conversazione.
«Sembrate un essere magico, miss Phèdre. Credo che il vostro aspetto da ninfa dei boschi sarebbe di gran moda a Londra.»
D’istinto, portai una mano sulla corona di foglie e sorrisi. Ero l’esatto opposto di Charlotte: i capelli castani, gli zigomi un po’ spigolosi, la pelle leggermente arrossata dalle ore trascorse all’aperto. Forse non ero la rappresentazione della bellezza più classica, ma andavo comunque fiera della mia immagine allo specchio.
«A cena mi racconterete che altro sarebbe di gran moda a Londra, allora.» E senza dargli modo di replicare, gli voltai le spalle dirigendomi svelta verso il grande scalone di marmo bianco; Charlotte mi seguì a ruota.
CAPITOLO 2
Tiare
«Sei un disastro, Phèdre! Adesso per favore sta’ ferma, siamo già in ritardo!»
Sebbene avessi cercato di ribellarmi, Charlotte aveva congedato la mia cameriera personale per potermi sgridare per bene, lontane da orecchie indiscrete. Nonostante avessimo abbastanza servitori per assolvere tutte le incombenze legate al nostro aspetto, avevamo l’inusuale abitudine di aiutarci l’un l’altra quando si trattava di vestiario e capelli. Era stato così sin da quando nostra madre era morta, come se il calore reciproco potesse compensare la sua mancanza. Inoltre, si trattava di un’ottima occasione per passare in rassegna argomenti spinosi senza essere udite.
«Lord Northampton è un ottimo partito e te lo sei giocato ancora prima di avere una possibilità con lui.»
«Secondo me, invece, è rimasto colpito.» Le scoccai un sorriso sornione e Charlotte alzò gli occhi al cielo, afferrando il mio abito poggiato al paravento per poi buttarmelo addosso con poca grazia. Riprese ad aiutarmi, guardandomi con aria minacciosa e borbottando: in quel momento la detestai, ma in generale sarei stata persa senza di lei.
Charlotte si era sempre presa cura della famiglia. Nostro padre era spesso assente e, sebbene io e lei avessimo solo qualche anno di differenza, si era sentita subito in dovere di assumere il controllo della casa. In alcuni momenti le ero stata grata, in altri avrei preferito essere figlia unica. A essere sincera, molto spesso avrei preferito essere figlia unica.
Stavo per replicare un po’ brusca, quando mi venne un’idea: forse avrei potuto portare quella situazione a mio vantaggio.
«Vogliamo scommettere?» esclamai, allungando la mano verso di lei. Charlotte mi guardò interdetta, aprì la bocca per replicare e poi la richiuse. Io non desistetti: ancora qualche istante e avrebbe ceduto. Adorava le competizioni e non avrebbe mai rinunciato a una possibile vittoria. Persino una passeggiata a cavallo per lei poteva diventare una sfida in cui dare prova della propria superiorità e bravura.
Come mi aspettavo, la sua reazione non si fece attendere. «Scommettere su lord Northampton? È una cosa da bambine Phèdre, come ti viene in mente?» esclamò, sbuffando, ma visibilmente incuriosita.
«Peccato, avevo in mente un premio di quelli da non lasciarsi scappare.»
Lei smise per un attimo di armeggiare con le pieghe della mia gonna. «Che cosa avevi in mente?» chiese, alzando un sopracciglio.
«La tiara della mamma» proposi, e lei subito spalancò la bocca.
«Quella appartiene a me! Sarò la prima a sposarsi e sono la sorella maggiore. È mia di diritto» rispose stizzita.
«No. Tecnicamente, i gioielli della mamma sono ancora in ballo.»
Nostra madre ci aveva lasciato in dote molti preziosi, ma quella tiara premeva a entrambe. Si trattava di un diadema di fattura francese, che la mamma aveva ricevuto in dono da nostro padre per il loro matrimonio. A mio parere, si trattava dell’opera di oreficeria più bella che avessi mai visto.
Era composto da elementi distinti e divisibili, ispirati alla natura: uno scheletro rigido invisibile, agganciato a un ramagedi foglie e fiori con diamanti incastonati. Il tutto si sviluppava in volute flessuose intorno alla struttura portante che, grazie a un ingegnoso sistema di ganci e anelli nascosti, poteva essere rimossa rivelando una bellissima collana di fiori.
Nostra madre aveva indossato quel gioiello solo in rare occasioni, ma per noi rappresentava l’oggetto che più sentivamo legato a lei; quando lo indossava, sembrava che il capo fosse incoronato da peonie, camelie e gelsomini di ghiaccio e somigliava alla regina delle nevi.
«E in che cosa consiste la vittoria o la sconfitta?» La voce di Charlotte mi riportò alla realtà. Mi fissava, a braccia incrociate, e dal suo sguardo compresi che ormai non si sarebbe tirata indietro.
Mi presi un attimo per godermi la sua espressione, poi sorrisi. «Bacerò lord Northampton entro la fine della settimana.»
Mia sorella spalancò la bocca. Sarebbe stato un comportamento talmente scandaloso che probabilmente non mi credeva capace nemmeno di pensarlo. In ogni caso, non si sarebbe trattato del mio primo bacio.
Avevo calcolato tutto: i marchesi si sarebbero fermati fino a domenica e avrei avuto qualche giorno per riuscire a vincere la scommessa. Lady Northampton e nostro padre avevano delle questioni in sospeso da discutere e, per l’occasione, avevano anche candidamente pensato di far incontrare me e Richard: da una parte il rampollo del casato, dall’altra la figlia ancora da sistemare. Che i Greville non avessero un titolo da sfoggiare era del tutto irrilevante: un blasone senza mezzi valeva meno di un borghese dalle ingenti sostanze. Dopotutto, anche mia madre era una lady e aveva sposato un uomo di rango inferiore, ma dalle rendite oltremodo cospicue. Se le cose fossero andate secondo i loro piani, sarei stata fidanzata ancora prima della Stagione invernale.
Charlotte riprese una certa compostezza e poi scosse la testa, continuando a sistemarmi il vestito. «Credi che sia stupida? È un donnaiolo di prima categoria, bacerebbe chiunque!»
A quel punto le bloccai le mani e lei fu costretta a tornare a guardarmi.
«Non ho detto che lui bacerà me, ma che sarò io a baciare lui» precisai, lasciandole i polsi e allungando di nuovo il braccio in attesa che mi stringesse la mano.
Charlotte a quel punto sembrò parecchio intrigata, ma non ancora del tutto convinta. «Come farò a sapere che non hai mentito?» Alzò un sopracciglio e mi guardò di sbieco.
«Dovrai fidarti della mia parola.»
Mia sorella avrebbe potuto rimproverarmi tutto, ma non che non fossi onesta e sincera, soprattutto con lei. In passato, più di una volta avevo ammesso la sconfitta e senza prendermela troppo. Mi guardò, sempre più combattuta, ma la posta in gioco era troppo alta.
«Andata» rispose, stringendo la mia mano ancora tesa. «Ora sbrighiamoci. Papà s’infurierà con entrambe!» Riprese in fretta ad aiutarmi, mentre io cercavo di raccogliere i capelli.
Adesso avevo un motivo valido per non sabotare la tanto attesa visita dei Northampton.
Sapevo abbastanza di loro perché io e Charlotte ci divertivamo a origliare quando mio padre aveva ospiti nello studio. Non era un passatempo molto signorile, ma così avevamo scoperto diverse cose interessanti.
Rimasta vedova molto giovane, lady Northampton aveva preso in mano il patrimonio della famiglia e, a dire di nostro padre, lo aveva amministrato con incredibile intelligenza. Se prima era stata una donna offuscata dall’ombra di un matrimonio ingombrante, negli ultimi quindici anni aveva dimostrato ampiamente il proprio valore. Tuttavia, quando il figlio si sarebbe sposato, il suo ruolo di padrona di casa sarebbe passato in secondo piano.
Mi chiedevo come una donna del genere avrebbe reagito vedendosi messa da parte. Ero davvero curiosa di conoscerla.
CAPITOLO 3
Branchie
I pranzi in famiglia venivano consumati in un locale piccolo e intimo situato al pian terreno. Affianco a questo, vi era il sontuoso salone delle feste, dove mio padre teneva i ricevimenti ufficiali. Anche questa volta aveva ordinato di allestire la sala più riccamente decorata della tenuta.
Era stato un artista italiano a dipingerne la volta, con scene ispirate alla mitologia greca. Il resto dei mobili e delle suppellettili veniva dal continente. A me piaceva particolarmente quella parte della casa e vi trascorrevo molto tempo quando non ero a sporcarmi gli abiti nella serra. Qualche volta mi esercitavo al grande pianoforte, con scarso successo; altre leggevo o dipingevo. La luce che filtrava dalle grandi vetrate, alte fino al soffitto, era perfetta per ritrarre nature morte e fiori appena raccolti.
Facemmo il nostro ingresso nel salone con meno ritardo del previsto. Era stata Charlotte a ultimare la mia acconciatura e a dare gli ultimi ritocchi al mio aspetto. Aveva buongusto e si teneva sempre aggiornata in fatto di mode, sperimentando le sue ricerche su di me.
Nostro padre ci fissò corrucciato, ma cercai di ignorarlo, sorridendo ai presenti come se nulla fosse.
«Lady Northampton, lord Northampton, finalmente posso presentarvi le mie figlie: Charlotte e Phèdre» disse senza dilungarsi troppo. Era un uomo tutto d’un pezzo, a cui non piacevano cerimonie e smancerie. Ciò lo rendeva forse un po’ crudo e poco gentile, soprattutto negli affari, ma era una persona con cui mi sarei sentita di parlare di qualsiasi argomento; era sincero e diretto. Un lato di lui, questo, che apprezzavo particolarmente e che avevo ereditato.
Charlotte, invece, era la perfetta donna del bel mondo, ammirata da tutti per i modi eleganti, le movenze flessuose e il tono di voce mai scomposto o troppo acuto. Non mi ero di certo stupita quando lord Essex era capitolato al primo sguardo.
«Mr Greville, le vostre figlie sono a dir poco incantevoli.» Il tono vellutato di lady Northampton mi costrinse a voltarmi verso di lei. Pensai subito che fosse incredibilmente bella con i capelli color mogano, gli occhi di un verde acceso e dal taglio lievemente orientale, le labbra carnose e ben disegnate, quasi fosse un soggetto di un quadro rinascimentale. Il corpo flessuoso era fasciato da un abito impeccabile, perfetto per un salotto londinese come per un ricevimento alla presenza di Sua Maestà. L’avrei paragonata a una di quelle rose che sboccia a maggio, e che si ostina a non sfiorire, nonostante il suo tempo sia ormai venuto.
Sia io che mia sorella ci esibimmo in una riverenza, in segno di ringraziamento, e nonostante avessi tenuto il capo chino, fui certa che la Marchesa non mi avesse staccato gli occhi di dosso.
Io e Richard, come c’era da aspettarsi, fummo posizionati strategicamente l’uno accanto all’altra. Charlotte, come sempre, prese posto alla destra di nostro padre.
La servitù aveva davvero dato il meglio di sé: l’argenteria di famiglia impeccabilmente lucidata, i bicchieri di cristallo, cesellati da maestri veneziani, erano ben posizionati sul tavolo da pranzo, al cui centro c’era un’esplosione di fiori provenienti dalla mia coltivazione. Per un istante, mi beai della magnificenza della natura.
«Ci rincresce di avervi fatto aspettare» disse educatamente Charlotte, distogliendomi dei miei pensieri.
«Non scusatevi lady Greville» sorrise la Marchesa, alzando lo sguardo dal piatto e posandolo su mia sorella. «A noi donne è sempre concesso arrivare in ritardo, soprattutto quando l’occasione è di una certa importanza» aggiunse, voltandosi a guardarmi. Percepii una leggera nota di rimprovero nel tono di voce o, forse, me ne volli convincere. «A ogni modo, siete entrambe una gioia per gli occhi e vi accordiamo il nostro perdono» concluse, con un leggero sorriso che smorzò per un attimo il mio disagio. Lady Northampton riusciva a mettermi un po’ in soggezione, nonostante fosse difficile che mi sentissi intimorita da qualcuno.
«Non credi, Richard?» aggiunse rivolgendosi al figlio, nella speranza di dare modo a lui di farsi avanti. Ero certa, tuttavia, che non avesse bisogno di grandi incoraggiamenti.
Il giovane si voltò verso di me e mi guardò con un’espressione indecifrabile, fra il divertito e il malizioso; la stessa che aveva sfoggiato poco prima. «Devo ammettere che miss Greville è quasi irriconoscibile» disse con naturalezza, soffocando a stento una risata.
«Perdonatemi, ma credo di non aver capito» intervenne mio padre, alzando un sopracciglio e guardando l’ospite, infastidito. Charlotte, nel mentre, era sbiancata. Io mi stavo divertendo come mai prima. Forse, avevo finalmente trovato pane per i miei denti.
«Incantevole, volevo dire a dir poco incantevole» si corresse lui, mascherando il tutto con un finto colpo di tosse.
Io non mi scomposi, anzi. Rimasi con gli occhi fissi su di lui e mi resi conto che aveva comunque difficoltà a ricambiare il mio sguardo. Forse non si era ancora abituato alla mia particolarità. A ogni modo, se avesse avuto voglia di tirare la corda, io l’avrei accontentato.
«Poco fa avete accennato a quanto vi appassioni la moda di Londra» iniziai io e subito mio padre si voltò verso di me.
«Vi conoscete già?» chiese sospettoso.
«Abbiamo avuto il piacere di fare la conoscenza reciproca prima che le vostre figlie salissero al piano di sopra per offrirci quest’amabile visione» rispose lui con naturalezza, guardando il padrone di casa. «E devo ammettere che vostra figlia Phèdre si è dimostrata fin da subito una creatura singolare» aggiunse con finta innocenza.
«Spero che almeno vi abbia accolto come si deve» sospirò lui.
«Con tutti gli onori, Mr Greville» rispose lord Northampton con un sorriso.
Mio padre non indagò oltre, ma più tardi sapevo che mi sarei sorbita una bella ramanzina. Come se le lamentele di mia sorella non fossero già state abbastanza da sopportare.
Fu proprio Charlotte a spezzare il silenzio e cambiare discorso, parlando del suo imminente matrimonio.
«Siete contenta di andare a vivere a Blenheim Palace? La tenuta degli Essex è una delle più suggestive del Paese» asserì lady Northampton, rivolgendosi direttamente a lei. Mentre Charlotte illustrava l’elenco delle meraviglie di Blenheim Palace, sorpresi Richard a guardarmi, meno divertito e più concentrato.
«Qualcosa non va, milord?» chiesi, allungando la mano e prendendo il calice di vino. Sorseggiai piano, poi lo riposi con lentezza.
«Devo essere sincero, non ho mai visto nessuna con il vostro aspetto» esordì, questa volta senza divertimento nella voce, solo curiosità. Non mi aspettavo che dicesse una cosa simile. Di solito nessuno faceva riferimento esplicito a quella mia peculiarità.
«A che cosa vi riferite, milord?» domandai, facendo finta di niente.
«Ovviamente alle branchie che avete sul collo e alle pinne che vi spuntano dalle braccia.»
Era serio e concentrato e a me per poco non andò di traverso il vino. Mi trattenni appena dallo scoppiare fragorosamente a ridere.
«Vi servono solo per quando tornate nel vostro stagno? O le usate per respirare anche adesso?» mi incalzò, sporgendosi leggermente verso di me.
«Solo per quando torno nel mio stagno» risposi con un mezzo sorriso.
Lord Northampton esitò un istante, studiandomi in silenzio.
«Se volete posso mostrarvi come funzionano, però vi devo avvertire…»
«Rischio di morire affogato, come uno stupido marinaio illuso da una sirena?»
«Potrebbe succedere, sì» convenni con naturalezza, riprendendo il mio bicchiere. «Correrò il rischio…» Mi guardò e tornò a sorridere malizioso, come quando mi aveva incontrato nel corridoio qualche ora prima. Fu quello il momento in cui compresi che Richard Hale, Marchese di Northampton, sarebbe diventato mio marito.