Prologo
Avevo una borsa di pelle nera nascosta nell’armadio.
Era la mia eredità.
Ciò che restava di una vita che volevo dimenticare a tutti i costi.
A fatica e per un lungo periodo di tempo, ero riuscita a relegare in un angolo remoto della mente tutto quello che era successo, vivendo come una normalissima ragazza newyorkese. Tutti i giorni mi recavo al diner, servivo ai tavoli e svolgevo al meglio il mio lavoro, assaporando gli umori più belli di una città che faceva da sfondo alla mia sonnolenta routine. Facevo la spesa, andavo in biblioteca, a volte bevevo persino un drink insieme a Fred, ma subito dopo tornavo nel mio appartamento, nel mio mondo. Nonostante tutto, avevo imparato ad amare quella vita così asettica.
Ogni volta che aprivo l’armadio, però, quella valigia mi ricordava che dal passato non potevo fuggire. Mi ricordava che, prima o poi, avrei dovuto combattere quel fantasma che orbitava nel mio presente.
Quei soldi non sono miei.
Mitch aveva lasciato quella maledetta valigia sull’uscio del mio dormitorio, in una notte di pioggia. C’era anche una lettera, che non avevo mai avuto il coraggio di leggere.
E mai lo avrei fatto.
Avevo chiuso tutto nei recessi della mente, voltando pagina nel tentativo di sopravvivere. Dall’esterno potevo sembrare una donna forte che sapeva gestire la propria vita e le proprie emozioni. In realtà, ero fragile come un bicchiere di cristallo. Quel muro costruito attorno al mio cuore era stato l’unica scelta possibile per evitare di soffrire ancora. Il solo modo che conoscessi per rispondere a tutti i colpi bassi inferti dal destino.
Troppe persone si erano fatte del male a causa mia. Anche lui. E non avevo potuto evitarlo.
Cinquantamila dollari.
Con tutti quei soldi avrei potuto fuggire da New York e rincorrere i miei sogni, ma sentivo che, in un modo o nell’altro, dovevo espiare gli errori commessi dai miei genitori e gli sbagli che io stessa avevo compiuto. Così la Grande Mela era diventata il mio limbo. Solo che il costante senso di infelicità mi portava a credere che prima o poi avrei dovuto imparare ad accettare quel peso sulla coscienza e riprendere in mano la mia vita. Forse sarei anche tornata a credere nei sogni e nell’amore.
Non che fosse facile, ma volevo provarci.
Lui, però, era tornato. Improvviso e devastante come il fulmine che annuncia un temporale di mezza estate. Aveva destabilizzato tutto, persino quell’equilibrio precario in cui stavo annaspando. Divisa tra passato e presente, ero di nuovo incapace di volgere lo sguardo al futuro.
Mi ero così resa conto di quanto fossi stanca di lottare. Il desiderio e la voglia di essere me stessa, di amare ed essere amata, stava per esser distrutto ancora una volta.
Ero in un mare di guai.
Capitolo 1
Oliver
New York, aprile 2019
Now playing: The Cure, Inbetween Days
Avrei tanto voluto prendere Tyler a sberle. Se solo ne avessi avuto l’occasione, lo avrei fatto con immenso piacere.
Perché era fuggito a Seattle senza parlare con Glen? Quel ragazzo era proprio strano. Non riuscivo a comprenderlo e, forse, non sarei mai stato capace di farlo.
Sbuffai. Chiusi le tende e lasciai che Glen si accoccolasse per un po’ sul letto di Tyler.
«Ti porto una camomilla, okay?» sussurrai.
Lui non rispose. Fece solo un cenno di assenso col capo, poi si voltò dall’altro lato e socchiuse gli occhi.
Per il terzo giorno consecutivo mi ero trovato di fronte a una crisi emotiva da parte di Glen. Ormai avevamo stretto un bel rapporto. Mi piaceva la sua compagnia, e mi piaceva pensare al fatto che almeno Tyler avesse trovato la persona adatta a lui. Non avrei mai immaginato che tutto sarebbe andato a rotoli in un battito di ciglia. Glen aveva tutte le ragioni del mondo per sentirsi stanco, spossato e soprattutto deluso. Si era fidato di Tyler, e lui, invece, cosa aveva fatto? Era fuggito con Mick.
A distanza di un paio di mesi, neanche io riuscivo ancora a capire il perché di quella scelta.
Avrei tanto voluto fare qualcosa per Glen. Mettere una croce nera su tutto quello che era accaduto, ad esempio, ma non ero in grado di farlo. Come Glen, anch’io ero spezzato fino all’osso. Non potevo però escluderlo dalla mia vita e lasciarlo da solo al proprio destino. E poi… era anche un modo per stare vicino a Cecil.
Lei, la donna che aveva stregato il mio cuore ma che non riuscivo a comprendere fino in fondo.
E se Glen era in uno stato comatoso, io invece ero furioso. Ribollivo di rabbia.
Mentre aspettavo che l’acqua della teiera si riscaldasse, presi il cellulare dalla tasca dei jeans e scrissi un messaggio a Cecil. Da giorni non avevo sue notizie. Non sapevo dove fosse o cosa stesse facendo. Si avvicinava a me e poi scappava via. Prometteva che sarebbe rimasta, ma non manteneva mai la promessa. E sinceramente non ne potevo più di star dietro alle sue insicurezze.
Di Cecil conoscevo poco o nulla. Il suo passato, la sua vita prima di quella sera allo Stonewall Inn, quando c’eravamo conosciuti, era un vero e proprio mistero. Aveva accennato a una relazione finita male, ma non era tornata più sull’argomento. In realtà, non parlava quasi mai. Si lasciava baciare per correre via, lasciandomi con un pugno di mosche in mano.
Non potevo più vivere in quel modo. La mia vita era già abbastanza complicata, non riuscivo a star dietro anche a una persona che voleva solo prendersi gioco di me. Lei non voleva altro che un diversivo per poter sopravvivere alla sua esistenza vuota e spenta. Io, invece, volevo capire se c’era qualcosa oltre la passione. Volevo provare a conoscere la vera Cecil.
Oliver: Per favore, vieni subito a casa mia. Glen è qui, di nuovo, e non sta bene.
Sbuffai, esausto.
Versai l’acqua bollente in una tazza rossa e lasciai riposare l’infuso per qualche minuto. Poi, mi spostai nella stanza di Tyler.
«Vuoi anche un po’ di zucchero?» domandai a Glen, con un tono lieve. Lui non rispose. Non si era mosso da dove lo avevo lasciato. Posai la tazza sul comodino e tornai in cucina con il cuore stretto in una morsa, impotente.
Prendere a schiaffi Tyler significava dover salire su un aereo e volare fino a Seattle. Con lo stipendio che avevo, non potevo permettermi una follia del genere. Un aiuto, ecco, avevo solo bisogno di aiuto. Gettai uno sguardo al cellulare, ma Cecil non aveva risposto ancora al mio messaggio. Sconfitto, mi sedetti sul divano, accesi la tv e presi a fare zapping. Mi aspettava l’ennesimo sabato pomeriggio solitario in quella città del cazzo.
Su questo Tyler aveva proprio ragione. New York era una metropoli che ti succhiava l’anima. Lì, quel dannato sogno americano non si era mai avverato. Per lui e neanche per me. Era stato fagocitato da quel caos che animava le strade a tutte le ore del giorno e della notte. Tyler, nonostante tutto, aveva trovato il modo di fuggire dalla Grande Mela; io ero rimasto imbrigliato in un lavoro che non aveva nessuna prospettiva di carriera, con una paga che a stento mi permetteva di pagare l’affitto. E ora, con l’uscita di scena di Tyler, avrei dovuto trovare un nuovo coinquilino se non volevo lasciare quel delizioso appartamento sulla Broadway. Chi se lo sarebbe mai immaginato che a trentadue anni avrei vissuto ancora in questo modo?
Il bicchiere mezzo pieno non riuscivo più a vederlo da tempo. Ero forte, sì, ma anche i tipi come me, a volte, potevano gettare la spugna e smettere di combattere.
Presi di nuovo il cellulare nella vana speranza che Cecil avesse letto il messaggio, senza prestare troppa attenzione al televisore. La mente mi riportava sempre a lei e ai motivi che la spingevano a comportarsi in quel modo. Non capivo perché non riuscisse ad aprirmi il suo cuore. Eppure, fin da quando i nostri sguardi si erano incrociati per la prima volta…
«Non ti ho mai visto da queste parti» dissi, sedendomi di fianco a lei. Era di una bellezza senza tempo. A colpirmi di più furono i suoi occhi; era come se parlassero da soli. Avevano la capacità di leggermi l’anima.
«Be’, non sono un’assidua frequentatrice di gay bar» ammise in tono dolce, dopo aver sorseggiato il suo vino. «Sono venuta qui per fare un piacere al mio amico» continuò, indicando Glen e Tyler che erano vicini al bancone del bar. «Io e te qui siamo fuori posto.»
«Nessuno ci nega di fare quattro chiacchiere. Non ti sembra?»
«Comunque, non sei il mio tipo. Questo deve essere chiaro.»
«E questo da cosa l’hai capito? Non sai neanche il mio nome? Pensi che possa essere un violentatore seriale a cui piace scegliere le sue vittime in un club per soli uomini?» Era diversa da tutte le donne che avevo incontrato nell’arco nella mia vita. Molte ragazze avevano apprezzato la mia bellezza e la mia affabilità, ma lei sembrava capace di tenermi testa. Non era solo stupenda e tremendamente sexy; era anche ironica e molto carismatica. Una merce rarissima di questi tempi.
«Non cambia nulla se conosco o meno il tuo nome. Sono qui solo per godermi un drink e fare da spalla al mio amico. Sono off limits per i marpioni come te» sussurrò, bevendo un altro sorso di vino rosso. Ma il viso nascondeva un sorriso che mi stava facendo perdere la testa.
«Io? Un marpione? Hai sbagliato proprio persona» risposi stando al gioco. «Sono docile come un cucciolo di koala.» Lei rise fragorosamente alla mia battuta e io feci lo stesso. Da quel preciso istante capii che, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto parte della mia vita. Non avevo immaginato, però, che sarebbe stato così difficile.
Quella serata allo Stonewall Inn era stata magnifica. Mi ero sentito come se fossi tornato a vivere dopo mesi di solitudine. Avevamo bevuto molti drink, ma eravamo rimasti lucidi. Mi aveva raccontato del lavoro come cameriera all’Ellis Diner e che si era trovata lì causa di forza maggiore, ma ambiva a qualcosa di meglio. Purtroppo, ancora oggi non sapevo a cosa si riferisse. Cecil restava la donna del mistero.
All’inizio non ci avevo fatto caso, ma quando avevo iniziato a volere qualcosa di più dalla nostra relazione, quei silenzi avevano cominciato a darmi fastidio.
In tutta sincerità, non sapevo cosa aspettarmi. Non era stato un colpo di fulmine, come per Tyler e Glen. La nostra era stata una conoscenza cotta a fuoco lento e, sebbene quella sera stessa ero riuscito a strapparle un bacio degno delle migliori commedie romantiche, prima di vederci per un primo vero appuntamento dovettero passare ben due settimane.
Sembrava tutto così magico e perfetto, quasi stentavo a credere di aver trovato una ragazza capace di rimettere in moto il mio cuore, dopo tutta quella serie di relazioni sbagliate che costellavano il mio passato.
Qualche notte dopo l’avevo baciata, su una panchina di Times Square. Neanche il rumore della città era riuscito a intromettersi tra noi, eppure quando le avevo chiesto di rimanere con me aveva rifiutato. Da quel momento, tra di noi era stato un continuo alternarsi di alti e bassi. Cecil tirava i fili della mia vita, mi attirava a sé e mi respingeva con la stessa intensità, quasi fossi una marionetta nelle sue abili mani. E io non riuscivo a fare altro che assecondarla, anche contro la mia stessa volontà.
Il cellulare squillò all’improvviso e fui trascinato alla realtà dal naufragare dei miei pensieri. Lo afferrai, sorpreso di ricevere una chiamata da parte sua.
«Ciao, Oliver.» La voce di Cecil era un sussurro spezzato. «Che succede? Come sta Glen?»
«Questo è l’unico modo per sapere qualcosa di te» risposi stizzito. Lei non disse nulla, fece solo un lungo e sofferto respiro. Ripresi subito la parola, impedendole di aggiungere altro. «È la terza volta in una settimana che Glen piomba a casa mia. Sta male, Cecil. E io non so cosa fare. Ora è sul letto di Tyler. È crollato a causa di una crisi di pianto.» Era distrutto, come lo ero io. Quella situazione non riuscivo più a gestirla. O almeno, non potevo farlo da solo.
«Se solo potessi volare a Seattle…» sussurrò Cecil. «Ora sono al diner, ma tra un’ora finisco il turno e vengo lì da te. Okay?»
«Possiamo fare qualcosa per lui?» le domandai. «Nel senso, lui può anche stare qui da me. Io non ho problemi, ma…»
«Glen è mio amico. Devo stare io al suo fianco» aggiunse, prendendo il sopravvento su di me.
«Anche io ho un cuore, Cecil. Questo ancora non l’hai capito? Lo conosco da poco, ma… mi dispiace vedere un ragazzo come lui in questo stato.»
«È compito mio, Oliver.»
Ed eccola di nuovo, la donna fredda e distaccata che mi aveva attaccato fuori l’Ellis Diner qualche settimana prima, quando mi ero presentato lì all’improvviso, con Tyler. Aveva chiuso di nuovo il cuore, mi aveva voltato le spalle, erigendo un altro muro attorno a lei. E io non riuscivo a scalfire le sue difese.
Sembrava così lontana dalla Cecil di cui mi ero innamorato, quella con cui condividere qualcosa era facile, la cui sincerità si leggeva nella profondità del suo sguardo e nell’intensità dei suoi baci.
Perché si comportava in quel modo? Si era già stancata di me? Restava al mio fianco solo per via di Tyler e Glen?
Rabbia e malinconia, di fronte a quei pensieri, facevano a gara a distruggere l’ultimo briciolo di razionalità che ancora mi rimaneva.
«Scusami, non volevo dire questo, Oliver» disse Cecil, fermando lo scorrere dei miei pensieri e interrompendo il silenzio in cui ero calato. «Conosco Glen da più tempo di te e so come comportarmi. Ti sollevo da ogni disturbo. Sono a casa tua tra un’ora.»
«Ha chiesto il mio aiuto e non il tuo, da quel che vedo. Anche Glen, forse, ha capito che persona sei» aggiunsi con un tono di sfida. «Ho sbagliato a telefonarti.»
«Cosa stai insinuando?» Il tono di voce si era fatto più alto.
«Ne abbiamo già parlato, Cecil. Cosa ti sta succedendo? Perché un giorno sei qui, e il giorno dopo ti sento distante mille miglia?» Volevo solo sapere la verità.
«Non è il momento di pensare ai rapporti di coppia, Oliver. Io… non mi sento pronta.»
Neppure lei sembrò convinta.
«Sono tutte puttanate. Glen ha bisogno anche del tuo aiuto, comunque. E non è il solo a dover fare i conti con l’assenza di Tyler. Ci vediamo tra un’ora, Cecil.»
Chiusi la telefonata senza darle modo di rispondere, lasciando cadere il cellulare tra i cuscini del divano. Mi alzai solo per raggiungere il frigorifero e recuperare una birra. Ne mandai giù una lunga sorsata, che però non bastò a calmare il battito del mio cuore né a placare il tremore causato dalla furia che mi scorreva nelle vene, sottopelle. Bevvi un altro lungo sorso, poi ancora un altro, fino a quando non finii tutta la lattina.
«Non è un po’ presto per bere? Oppure è già ora dell’aperitivo?» La voce di Glen quasi mi fece sobbalzare. Era arrivato di soppiatto, senza fare il minimo rumore. Incrociai il suo sguardo vuoto, spento, totalmente privo di voglia di vivere. Aveva i capelli arruffati e la T-shirt sgualcita. Si avvicinò al tavolo solo per posare la tazza vuota. «Ora levo le tende. Scusami, Oliver. Ti sono solo d’impiccio.»
Fece per andarsene, ma riuscii a fermarlo.
«Sta per arrivare Cecil» sussurrai. «In questo stato non puoi andare a casa da solo. Ti avrei accompagnato io volentieri, ma ho del lavoro da sbrigare» proseguii, indicando il laptop che era sul tavolino accanto alla televisione. Era una bugia, la mia. Non avevo nessuna consegna imminente, tanto per cambiare. Smistavo ancora la posta del mio capo.
Che stupido.
«Senti, Glen, voglio essere sincero con te. Non so cosa fare. Vorrei cancellare il tuo malessere ma, credimi, sono distrutto anche io.» Sì, ero un morto che camminava, nel vero senso del termine.
Da un paio di mesi ero alla ricerca di una nuova agenzia pubblicitaria, di un posto in cui poter dare sfogo alla mia creatività e non portare solo il caffè mentre i miei progetti rimanevano a prendere polvere sulla scrivania. Avevo bisogno di dare una svolta alla mia vita e quello che era accaduto a Tyler, scappato a Seattle per inseguire il lavoro dei suoi sogni, lo avevo preso come un segno. Dovevo darmi una mossa.
«Aspetterò Cecil nell’androne. Ho sbagliato a venire qui. Tu hai già un mucchio di problemi» disse con un filo di voce.
«Sei mio amico, Glen» replicai. «Resta qui, per favore. Non andare via.» Il mio ero un appello. Stavo per crollare, e forse la presenza di Glen poteva aiutare, almeno in qualche modo. «Scusa se ho alzato la voce poco fa, ma io Cecil non la capisco.»
«È un’incognita anche per me e la conosco da più tempo di te, lo sai.» Si avvicinò, facendo scorrere una mano attorno alla mia spalla. «Devi combattere, Oliver. Non arrenderti.»
I ruoli sembrava si fossero appena invertiti. Perché Glen cercava di consolarmi? Avrei dovuto essere io la spalla su cui piangere e non viceversa.
«Tu però hai deposto le armi.»
Lui tentò di fare un sorriso, ma ne uscì una smorfia deforme.
«Non si è presentato all’appuntamento. Ha preferito non condividere con me quella parte della sua vita. Sarò stato solo un divertimento per lui e, in fondo, non posso competere con uno come Mick.»
Tyler era stato un coglione con Glen. Non solo si era dileguato, trasferendosi in un’altra città per inseguire la carriera, ma aveva portato con sé anche Mick, il suo ex, con il quale era tornato a fare coppia fissa. Inspirai a fondo e guardai Glen negli occhi: nessuno dei due sembrava disposto a riprendersi in fretta da quelle delusioni.
«Resti?» chiesi, senza aggiungere altro.
Glen mi regalò un sorriso debole, poi si sedette.
«Ti piace il burro di arachidi?» gli chiesi.
Lui fece un cenno di assenso e mi guardò mentre preparavo un paio di sandwich per entrambi. Li mangiammo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, fino a quando il campanello non spezzò quella quiete.
«Deve essere Cecil» disse Glen, bevendo l’ultimo sorso d’acqua.
«Non ti muovere. Vado io. E poi …»
«Sì, lo so. Devi parlarle. Io aspetto qui, mi metto gli auricolari e ascolto un po’ di musica» mi rassicurò con un piccolo sorriso. «Grazie, Oliver. Dico sul serio» aggiunse.
«Posso entrare?»
Cecil mi fissava, ferma sull’uscio di casa mia, con ancora indosso gli abiti da lavoro, il viso pallido e quei bellissimi capelli color mogano legati in un piccolo chignon.
Mi spostai, facendole spazio senza dire una sola parola, e quando mi passò accanto quell’odore così dolce di rosa e lavanda mi inebriò le narici. L’afferrai per un braccio e, chiudendo la porta di casa con il piede destro, la strinsi a me senza darle modo di fuggire ancora. Sobbalzò, ma non di paura. Si sciolse tra le mie braccia, proprio come aveva fatto quella sera fuori lo Stonewall, e poi ancora su quella panchina a Times Square. Non avevo smesso di essere furioso con lei, ma la desideravo immensamente. Mi scostai quanto bastava per baciarla e legarmi a quelle labbra meravigliose. Cecil di nuovo non si oppose, rispondendo con la stessa intensità.
«Scusa per come mi sono comportato» dissi nel prendere respiro. Chissà, forse ero io a pretendere troppo da lei e da noi?
«Sono una stronza, Oliver» sussurrò. Poi mi baciò di nuovo, facendomi dimenticare tutto il resto. Quel bacio, però, non avrebbe rimesso le cose a posto per sempre. Avevo ancora bisogno di sapere se fosse pronta ad abbassare le proprie difese emotive una volta per tutte.
Capitolo 2
Cecil
Now playing: Yazoo, Only You
La telefonata mi aveva lasciato senza parole. Comprendevo la rabbia di Oliver. Anche io, se fossi stata nei suoi panni, mi sarei comportata allo stesso modo, ma come potevo essere in grado di amare se la mia vita era una completa menzogna? Non meritavo una persona come lui. Non meritavo proprio nulla. Il mio destino era vivere in quel purgatorio personale per tutto il resto dei miei giorni, o almeno fino a quando fossi stata in grado di reggerne il peso. Lo avevo promesso sulla tomba del povero Malcolm e io ero una donna di parola.
Nel mezzo, però, c’era Oliver. E quando lui era accanto a me non ero più padrona delle mie azioni.
Forse era la persona giusta, l’uomo che avrebbe saputo curare il mio animo spezzato, ma non potevo di certo trascinarlo nel mio inferno. Adesso chiedeva un confronto, cercando una sincerità che non ero pronta a concedere. Però mi sentivo in dovere di rispondere alla richiesta di aiuto da parte di Glen. Quella, per il momento, era l’unica cosa che potevo fare.
Mi diressi al tavolo sette per portare l’ordinazione, poi tornai verso il bancone dove c’era Mark intento a battere uno scontrino. «Sai se Fred è arrivato?» domandai. Lui alzò lo sguardo ma subito tornò a scrivere le ordinazioni sul registratore di cassa. «Devo uscire prima. È urgente.»
«E mi lasci qui da solo? Cecil, sono stanco. Faccio doppi turni da due settimane.»
«Glen non sta bene.»
«Sta ancora dietro a quel povero idiota?» rincarò la dose lui. Mi limitai a fare un cenno di assenso con il capo.
«Devo andare a casa di Oliver, ma torno subito. Magari resto fino alla chiusura, okay?» Io e Mark eravamo allo stremo. A causa del crollo emotivo di Glen, eravamo praticamente da soli a coprire i turni all’Ellis Diner. Fred era consapevole della gravità della situazione, ma non aveva intenzione di assumere nessun altro per il momento, sperando di riavere Glen al diner al più presto. La situazione però stava sfuggendo di mano.
«Sono le cinque del pomeriggio» disse Mark, distogliendomi dai pensieri. «Tra un’ora ci sarà il delirio. Cerca di fare ciò che devi fare nel più breve tempo possibile, per favore. È proprio indispensabile?» insistette.
No, non lo era. Glen era in mani sicure, Oliver lo avrebbe rimesso in sesto in un modo o nell’altro. Ero io che volevo andare da lui perché… be’ mi mancava quello spilungone dai capelli color oro e dai profondi occhi azzurri. Volevo stare vicina al mio amico, ma anche trovare una scusa per vedere Oliver.
Che situazione assurda.
Per quanto volessi restare distante da Oliver, non ero in grado di resistere all’attrazione che provavo per lui. Lo conoscevo da poco, e nonostante questo ero convinta che sarebbe stato in grado di amarmi per l’eternità. Il problema era che non potevo raccontargli chi fossi in realtà e perché ero diventata una stronza senza cuore. Avrebbe capito? Mi avrebbe accettato lo stesso con tutto il mio passato ingombrante alle spalle?
«Stiamo parlando del mio migliore amico, Mark. Neanche ti immagini cosa sta passando.»
Fece spallucce. Sapeva fin troppo bene che era una battaglia persa mettersi tra me e Glen.
«Ho una vita anch’io, Cecil» disse alla fine, con un tono secco. Gli sorrisi dolcemente e promisi che sarei tornata al diner prima dell’ora di punta. O almeno avrei provato a fare tutto di corsa, sfrecciando nel caos della metropolitana. Passai dal retrobottega e, salendo le scale, arrivai nell’ufficio di Fred. Entrai di soppiatto, senza bussare alla porta.
«Devo andare da Oliver, Glen ha avuto una delle sue crisi. Torno subito, però. C’è Mark in sala da solo» dissi.
Fred si voltò. Era in piedi, di fronte alla finestra, intento a scrutare il cielo primaverile di New York. Aveva il viso pallido e stanco, la barba incolta e i capelli arruffati. Si sedette alla scrivania, prese gli occhiali da vista, li inforcò e cominciò a guardarmi con un’aria strana, quasi indecifrabile.
«Non devi giustificare i tuoi spostamenti, Cecil. Va’, corri da Glen.»
«Dobbiamo trovare una soluzione, però. Lo hai visto anche tu in che stato è.»
Sospirai. Mi aveva raccontato quello che era successo un paio di mesi prima, quando Glen era corso da lui in lacrime. Fred non aveva mosso un dito. Non si era lasciato sopraffare dai sentimenti che provava per lui. Lo aveva accolto e consolato, ben sapendo che il suo abbraccio non sarebbe bastato. Glen non aveva bisogno di un altro uomo, aveva bisogno di un amico, di una persona che lo conoscesse a fondo. Fred sperava che questo avvicinamento potesse significare qualcosa di più, ma due mesi dopo… be’ la situazione non era cambiata affatto. Glen si stava struggendo ancora per Tyler e, chissà, forse non sarebbe mai riuscito a superare il dolore. Ma Fred? Quando avrebbe capito che era arrivato il momento di voltare pagina?
«Vi aiuterò io, se necessario» disse, in risposta alla mia affermazione. «Non posso licenziarlo.»
«Non dicevo questo, Fred. Ma per una volta devo ammettere che Mark ha ragione, in due non possiamo più reggere» constatai.
«Ci sono qua io, Cecil. Te lo ripeto. Non devi preoccuparti.» Alzò lo sguardo dalle scartoffie solo per punzecchiarmi con un sorriso affabile, quello che nascondeva la sua deriva emotiva. «E tu? Con Oliver come vanno le cose?»
«Malissimo. È incazzato nero e non posso dargli torto. Merita di meglio.» Era così. Non potevo fare altrimenti.
«Mi hai sempre detto che non si può vivere di soli rimpianti. Allora perché tu fai lo stesso? So benissimo che in quell’incidente anche tu hai perso una persona cara, ma…» Fece un lungo respiro. «Hai trovato Oliver. È un ragazzo splendido. E vorresti gettare tutto all’aria per…»
«Devo ancora pagare per i miei errori, Fred. Mio padre e mia madre ne hanno commessi tanti. Oliver non capirebbe» sussurrai.
«Tuo padre lo ha fatto a fin di bene» disse. «Sei in gamba. Non puoi restare qui con me per sempre. A volte bisogna essere coraggiosi e affrontare il passato.» Sorrise di nuovo. «Io lo sto facendo. Un passo alla volta. E tu, invece?»
Rispetto a lui, stavo sabotando la mia vita come al solito.
«Torno tra poco» tagliai corto. «Porto Glen a casa e poi…»
«Riposati. Farai domani un doppio turno, okay?» Feci un cenno con il capo e, un minuto dopo, ero già in strada. Non mi cambiai neppure di abito. Indossai solo il mio fidato giubbino di jeans e mi diressi verso la metropolitana più vicina, diretta all’appartamento di Oliver. E poi? Cosa avrei fatto una volta arrivata a destinazione? Ero un disastro. Un vero disastro. Segnata nel profondo da una storia familiare così complessa da aver distrutto persino la mia vita sentimentale. Come avrei potuto amare un altro uomo dopo… lui? Come potevo mai sorridere alla vita quando il destino mi aveva portato via tutto? Oliver si meritava il lieto fine, diversamente da me.
Sopraffatta dai pensieri, entrai nel vagone della metro e mi sedetti sul primo sediolino infeltrito che trovai libero. Nonostante la fermata di Rockefeller Center fosse su un’arteria centrale, a quell’ora del pomeriggio il caos della Grande Mela era ancora piuttosto contenuto. Diedi uno sguardo al tabellone delle fermate e restai in attesa che il treno partisse. Alzai il bavero del mio giubbetto e mi raggomitolai sul sedile. Avrei tanto voluto mettere a tacere le voci che sentivo nella mia testa, ma non riuscivo a farlo. Forse, era il caso di accettare l’impossibilità di fuggire dal mio passato.
Ma Oliver, quel dolce ragazzo, aveva stregato il mio cuore. Pochi mesi erano trascorsi dal nostro primo incontro e già non riuscivo a controllare i miei sentimenti. Sapevo che non si trattava di amore, lo conoscevo appena, eppure in lui vedevo una scappatoia. Con Oliver potevo sperare in una vita migliore, e per capirlo mi era bastato un solo e semplice sguardo, mentre lo osservavo sgomitare tra la folla dello Stonewall Inn e fare attenzione a non rovesciare i due bicchieri che stringeva tra le dita.
A colpirmi erano stati i suoi occhi. Bellissimi, di una lucentezza e una profondità tale che era impossibile trovare l’aggettivo adatto a descriverli. Fisicamente non era il mio tipo: troppo alto, troppo biondo, troppo curato, troppo atletico. Troppo perfetto. Eppure, era riuscito a sedurmi col suo charme, il sorriso sghembo e quei modi di fare da uomo di altri tempi.
Oliver era gentile, ironico, sapeva stare al gioco, riusciva a tenermi testa quando cercavo di metterlo in riga. E poi… sapeva baciare, sapeva come farmi sentire speciale. Non che io fossi stata una donna di mondo, ma tra tutti gli uomini che erano entrati nella mia vita, Oliver era il migliore. Persino migliore di lui. A pensarci bene, sentivo ancora il sapore delle sue labbra se vagavo con la mente a quella sera su Canal Street. Il sogno, però, era durato poco. O almeno io lo avevo fatto finire troppo presto, remando contro la mia stessa felicità.
Gli errori di mio padre, quelli di mia madre e quella maledetta valigia che custodivo nell’armadio dell’ingresso, parlavano praticamente da soli. Non c’era spazio per nessuna persona al mio fianco.
Ma Oliver aveva continuato a cercarmi. Voleva conoscere il volto della vera Cecil e una sera, alla fine, avevo accettato di uscire con lui. Ero riuscita a comportarmi da persona adulta, senza cedere al ritmo delle mie pulsioni, nonostante quel bacio sulla panchina di Times Square. Un altro tocco da parte di Oliver e avrei rischiato di finire a letto con lui. E se fosse accaduto… niente sarebbe stato più lo stesso.
Così ero tornata a indossare la maschera da stronza algida, mantenendo le distanze e chiudendo il mio cuore. I nostri destini, tuttavia, sembravano essere già segnati. Io ero legata a Glen, lui a Tyler. Un filo rosso ci univa in maniera indissolubile.
Scesi alla fermata della metro con un peso sul cuore che mi impediva quasi di respirare. Impiegai pochi minuti a raggiungere il portone del suo condominio, salii le scale e rimasi in attesa sull’uscio fino a quando non mi fece cenno di entrare. Ero convinta di quello che stavo facendo. Avrei portato Glen a casa, mi sarei presa cura di lui e avrei chiuso per sempre con Oliver. Lui non si meritava quella vita di merda in cui stavo annaspando.
Il bacio che avvenne subito dopo questo pensiero fu fuori da ogni logica e previsione.
Oliver mi strinse a sé, mi baciò con passione e un pizzico di sfacciataggine. La sua lingua non chiese scusa né permesso. Mi assaggiò e basta, come solo lui sapeva fare. E io non restai di certo immobile. Risposi al bacio per sentire ancora quel sapore, e legarmi a lui in un abbraccio che potesse non avere mai fine. Il corpo aderì al mio come se fossimo due incastri perfetti. Sentii il battito del suo cuore, la consistenza delle mani, il suo sesso vibrare contro le mie gambe. Lo desiderai dentro di me. Le sue mani fecero cadere sul pavimento la mia giacca e in un attimo la bocca di Oliver mi si posò sul collo, assaggiando e leccando quel poco di pelle nuda che traspariva dalla divisa da lavoro. Mugugnai, al limite. Stavo rischiando di perdere il controllo. Se non avessi fatto subito qualcosa, avrei rischiato di perdere il controllo.
«Ti prego. C’è Glen nell’altra stanza» dissi in un attimo di lucidità. Oliver mi baciò di nuovo e poi mi accarezzò il viso, provocandomi un lungo brivido di piacere. Aveva le guance rosse, i capelli arruffati che scendevano lungo la fronte, e quel sorriso sghembo capace di mandarmi in tilt il cuore. «E poi… non posso.» Cercai di allontanarmi, ma lui non mollò la presa.
«Dimmi che resti questa volta, Cecil. Per favore. Sto impazzendo» sussurrò. Mi baciò e per la seconda volta il mio corpo agì per conto suo, senza dar retta alla mente.
«Non so se sono la persona giusta per te, Oliver» dissi col respiro spezzato.
«Voglio conoscerti. Voglio sapere cosa si nasconde qui.» E fece scorrere una mano sul mio petto, fermandosi vicino al cuore.
«È proprio di questo che ho paura.»
«Con me non devi temere nulla.»
L’istinto prese ancora il sopravvento. Con un altro bacio siglai una promessa che, ero certa, non sarei mai stata in grado di mantenere.
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