Novembre inizia a Saint Lazare, in un venerdì pomeriggio caotico e affollato, come lo sono sempre i pomeriggi nelle grandi stazioni parigine. Treni in partenza, pendolari affannati, rumori ingombranti e frenesia. L’odore è quello dell’attesa, della frustrazione, della fretta. Le voci sono tante, mischiate ai suoni degli altoparlanti che annunciano gli arrivi e le partenze.Due sconosciuti si incontrano, si prendono per mano, danno inizio a un gioco semplice, quasi sciocco. Si perdono nell’intricato groviglio della metropolitana parigina.
La prima fermata è Solferino, sulla linea 12, quella verde. Se siete stati a Parigi sapete che è lì che dovete scendere se volete visitare il museo d’Orsay o passeggiare sul lungo ed elegante Boulevard Saint Germain. Adriano e Mathilde attraversano Rue de Bellechasse e si ritrovano di fronte allo spettacolo degli orologi dell’Orsay.
A poche centinaia di metri, su Rue du Bac, si trova il ristorante nel quale ho lavorato durante l’estate del 2014, la prima volta che mi sono trasferita a Parigi. Una delle signore che aveva in gestione la brasserie era Odette, una donna sensazionale, energica e ironica che è stata una specie di zia per me, per questo è stato così semplice “regalarla” a Mathilde. Anche la mia Odette cercava spesso di rifilarmi i pains au chocolat avanzati quando staccavo da lavoro. Per fortuna il mio autocontrollo ha quasi sempre vinto sulla mia golosità!
Adriano e Mathilde si rincorrono sopra la Senna, costeggiano l’Orsay e le sue meraviglie nascoste, arrivano fino a Pont Royal, si baciano sospesi su un vuoto in fermento, su quel mare longilineo che è la Senna, eterna e volubile. Si baciano e attraversano il ponte, arrivano fino a quella mastodontica spina dorsale di cemento e ardesia che respira da secoli, che è il posto preferito di Mathilde e, in parte, anche il mio.
Spesso, quando lavoravo alla brasserie e attaccavo di pomeriggio, uscivo di casa un’oretta prima, approfittavo dell’entrata gratuita per i cittadini europei al di sotto dei ventisei anni (ah, che bella la gioventù!) ed entravo al Louvre per una “passeggiata”. Una galleria alla volta, per una mezz’ora al massimo, almeno due volte a settimana. Era il mio piccolo rituale, il mio sentirmi a casa in un posto che aveva dentro così tanta arte, ma che, soprattutto, aveva dentro così tanta storia.
A Mathilde ho regalato la mia passione per la storia francese e per l’Ancien Régime. Come lei amo tutto quello che riguarda i re di Francia, i castelli e i misteri. Ho ricalcato su di lei quel sentimento, quel “sa di casa” che il Louvre mi ha sempre trasmesso, quella quiete, quell’accoglienza che ho percepito ogni volta che ci sono stata.
Per questo lei trascina Adriano in quel piazzale enorme circondato da mura e statue. Per questo, evitando i turisti, lo porta ad ascoltare quel musicista (c’è sempre musica sotto le arcate del Louvre), gli fa chiudere gli occhi, lo porta con sé nel proprio mondo. E succede davvero. Se si chiudono gli occhi in quel punto preciso, si sente “l’odore del mondo che è stato e ti viene un brivido dietro la nuca”, si sente il rumore degli zoccoli dei cavalli in lontananza, le voci dei cortigiani, l’odore del passato.
Nel frattempo il tempo passa, la sera incalza… Adriano e Mathilde percorrono Rue de Rivoli, trafficata, lussuosa e storica, conoscendosi meglio, inseguendo un’altra sconosciuta ma quasi non prestandole attenzione, tanto sono presi l’uno dall’altra. Si ritrovano sul grande piazzale de l’Hôtel de Ville, maestoso e inebriante, luccicante e possente. Nei tre anni in cui ho vissuto a Parigi l’ho visto trasformarsi in mille modi diversi: arena cinematografica, campo da beach volley, palcoscenico durante la Fête de la Musique. Pieno di gente, di artisti di strada, semplici passanti.
I due quasi non gli dedicano attenzione, seguono quella donna elegante dai tacchi alti mentre scende le scale della metro, diretta verso la linea 11, quella marrone per intenderci, quella con meno fermate in assoluto. Salgono a bordo insieme a lei ma sono troppo presi, troppo distratti e accade: il gioco va in frantumi, la sconosciuta scende e loro non se ne accorgono.
Però Adriano si accorge di quella fermata, Arts et Métiers, in assoluto una delle fermate più belle della metro parigina, se non la più bella. Se non sapete della sua esistenza e ci capitate per caso (come è accaduto a me e ad Adriano) è come entrare in un altro mondo. Come immergersi per davvero in un altro luogo, un altro tempo. Lamiere, oblò, ingranaggi, quel bronzo squillante intorno, quella sensazione surreale di essere altrove, di aver attraversato un portale magico. La stazione è ispirata davvero a “Ventimila leghe sotto il mare” ed è una sorta di riproduzione del sottomarino del capitano Nemo.
Mi piaceva l’idea che Adriano avesse un legame con questa stazione, e che questo legame fosse qualcosa di tanto intimo e doloroso quanto un gesto d’affetto da parte di sua madre, una madre codarda, insensibile, che ha abbandonato i suoi figli nel momento peggiore delle loro vite, ma che, comunque – e questo è qualcosa di ancora più doloroso – li ha amati.
Era il momento perfetto per fa conoscere Leonardo a Mathilde, per spingere Adriano a raccontarle di loro, di cosa è accaduto, del peso che si porta dentro.
Le porte si aprono sul sottomarino di Nemo, Adriano afferra Mathilde e la trascina fuori dal vagone e chissà, magari il momento decisivo è proprio questo, il punto di non ritorno, la decisione sbagliata. Adriano continuerà a domandarselo per sempre.
Escono all’aria aperta, si stringono in una Rue de Tourbigo deserta, come ombre silenziose si uniscono, sembrano ballare, abbracciati. Adriano si confida e comincia ad accettarsi un po’ di più, si convince che forse è possibile, forse può imparare ad amarsi di nuovo, forse non è così sbagliato.
Allora perché non assecondare quella spensieratezza? Perché non lasciarsi avvolgere completamente dalla bellezza di quella sera e di Mathilde?
E allora Adriano chiude gli occhi, gira su se stesso, lascia al caso anche quell’ultima decisione. Dove andiamo adesso?
E potrebbero andare verso il quartiere latino, verso una Parigi da cartolina, più classica e conosciuta ma non per questo meno affascinante. Oppure potrebbero seguire il richiamo della Parigi più giovane, verso Place de la République, Rue Oberkampf, Avenue Parmentier, piene di locali, di musica, di vita.
È il destino che sceglie, giusto?
Il destino. Il caso. Le coincidenze. Adriano si ferma, il dito indica Place de la République, quella caotica bellezza di musica, skateboard e voci. La piazza di Parigi per eccellenza, quella in cui si manifesta, in cui si svolgono concerti, in cui si balla.
La piazza in cui ci si dà appuntamento, come abbiamo fatto tante volte io e i miei amici.
Appuntamento a République, poi vediamo. Magari rimaniamo a bere una cosa seduti in piazza, magari ci facciamo un giro e arriviamo fino a Strasbourg Saint-Denis e ci prendiamo la solita birra che costa poco, nel solito locale con la musica alta e i baristi simpatici, che ormai ci conoscono e vengono a bersi qualcosa con noi, ogni tanto.
Pieno di gente, soprattutto il venerdì sera, talmente pieno che non le senti le sirene, neanche quando passano una dopo l’altra, neanche quando fuori è il panico e il mondo trattiene il respiro.
Noi siamo dentro e ancora non sappiamo niente. La musica è troppo forte e siamo troppo giovani e troppo spensierati, non la sentiamo la paura, non ancora.
Siamo a Parigi, è una notte come tante. La birra costa poco, abbiamo trovato posto a sedere da “Le Prado” di venerdì sera, è praticamente un miracolo. A ottocento metri sparano sulla folla e i nostri cellulari stanno per esplodere di notifiche di amici e conoscenti preoccupati. Pochi minuti e le strade saranno invase dal terrore, dalle urla e dalla frenesia.
Ma noi siamo ancora dentro, al sicuro. Ridiamo, brindiamo. Pensiamo a quanto sia bello essere lì, nella città delle luci, della Rivoluzione, degli artisti.
Abbiamo il mondo in mano. È ancora nostro, per qualche minuto.
Laura Vegliamore