Ecco in anteprima i primi capitoli del romanzo d’esordio di Beatrice P.
Prologo
Appena sento la porta del ristorante aprirsi alle mie spalle, mi domando che razza di problema abbia la gente con i cartelli molto grandi con sopra scritto CHIUSO.
«Stiamo chiudendo» ribadisco ad alta voce, stanca, senza nemmeno voltarmi e continuando a pulire con una pezza il tavolino che ho di fronte.
«Lali…»
Una voce maschile mi investe e il cuore cambia improvvisamente il suo ritmo, mentre la mano che regge lo straccio trema impercettibilmente. L’aria intorno a me diventa pesante tutto d’un tratto e io smetto di ascoltare il ticchettio della pioggia che batte sulle finestre perché tutto ciò che sento, adesso, è il mio respiro che accelera e il suo profumo – quel profumo – che invade prepotentemente il mio spazio vitale.
Continuo a pulire il tavolino come se togliere la macchia ostinata che mi trovo davanti sia una questione di vita o di morte, le spalle ricurve e nessuna intenzione di voltarmi.
Percepisco il suo respiro affannato, quasi come se avesse appena compiuto uno scatto di corsa; lascio trascorrere troppo tempo senza reagire, mentre la macchia non se ne va e io sto ancora decidendo se iniziare a urlare o a vomitare. E, proprio quando opto per fare entrambe le cose in contemporanea, eccola di nuovo, quella voce bassa, sofferente, a malapena percettibile.
«Non sono nemmeno più degno di uno sguardo?»
Tiro un sospiro profondo, gli occhi chiusi, e decido di prendere finalmente in mano la situazione, proprio come compete a una donna con la D maiuscola che non ha nulla da temere, men che meno uno stupido borghesotto qualunque che millanta grandi doti culturali e che poi ha difficoltà nella comprensione di una parola così semplice come CHIUSO. Perché, se ancora non fosse chiaro, siamo chiusi, cazzo, siamo chiusi. E sto per urlarglielo addosso mentre getto con impeto lo straccio su quella macchiolina che non viene via perché è semplicemente un difetto del legno, e cerco di accartocciare in un angolo del mio cervello tutti gli stimoli che il mio elevato senso olfattivo sta cercando di inviarmi, a intervalli regolari, da quando lui ha messo piede nel ristorante, tentando di farmi ricordare gli infiniti momenti del mio passato che a quel profumo sono indelebilmente collegati… Come se non bastasse la sua voce, peraltro.
Sto davvero per dirglielo, che siamo chiusi e che questo vale anche e soprattutto per lui. Che non è più come una volta, quando aspettava che finissi il mio turno di lavoro con un libro di Diritto privato sul tavolo e un caffè d’orzo macchiato in tazza grande tra le mani. Vicino alla finestra. Con un sorriso caldo sul volto ogni volta che gli passavo velocemente di fianco, per caso. E mai per caso.
Sto per dirglielo che lui, qui dentro, non ci deve più entrare. Che su quel tavolino vicino alla finestra ora si siede una robusta signora che i sorrisi caldi non me li fa, ma che comunque non riuscirebbe mai, mai, mai, mai a prendere a calci la mia intera esistenza come è riuscito a fare lui.
Mi volto lentamente. Ma quando i miei occhi incontrano i suoi, talmente disperati da sembrare quasi malati, non riesco a dirgli proprio niente.
Fa un passo verso di me, lo sguardo implorante. È bagnato da capo a piedi.
Senti tu, grandissima faccia di merda, vorrei urlare a quegli occhi spezzati, lascia che ti renda chiara la situazione. Io sono una donna adulta, intelligente ed emancipata, frutto di anni e anni di lotte femministe, che nel tempo libero legge Dacia Maraini, che è cresciuta con Xena-Principessa guerriera, e che di sicuro non ha tempo per star qui a sentirsi ancora mortificata da…
«… mi manchi. Non ce la faccio più senza di te» mi dice con un filo di voce, e il fuoco rabbioso che mi sento divampare nella gola comincia a raffreddarsi.
Mi limito a fissarlo senza muovermi di un millimetro, le spalle ancora basse e la faccia vuota. Lui non riesce più a guardarmi negli occhi e non si azzarda ad aggiungere altro.
Fai quello che farebbe Xena, mi ripeto come un mantra, mentre seguo il suo petto che, sotto la giacca, si alza e si abbassa a una velocità sostenuta.
Mi schiarisco la voce un paio di volte. Poi, finalmente, dalla gola esce un suono che sembra vagamente umano: «Io sto lavorando.»
«Sono passati sei mesi. Sei mesi. Mi avevi detto che avresti avuto bisogno di tempo, e io questo lo capisco, ma sei mesi…»
Freno faticosamente il desiderio di scappare di corsa senza replicare, limitandomi ad alzare il dito medio nella sua direzione: questo non sarebbe affatto maturo e io sono una persona incommensurabilmente pacata e matura. L’ondata di rabbia torna, veloce come è passata.
«Vattene» sibilo tra i denti. «Questo ristorante è pieno di sedie e non vorrei mai che finisse come l’ultima volta.»
Mi volto di scatto e appoggio entrambe le mani al tavolino di cui mi stavo occupando prima di quella inaspettata interruzione.
Lo sento sospirare afflitto.
«Sì, nemmeno io lo vorrei» dice in un sussurro alle mie spalle.
Dopo qualche secondo, la porta del ristorante si apre e si richiude, facendomi piombare di nuovo nel silenzio sospeso di fine servizio.
Percepisco di nuovo la pioggia che batte forte sulle finestre. Estraggo il cellulare dalla tasca e digito veloce un messaggio.
LALI, 21:35
È stato al ristorante. Ha detto che gli manco. Stasera ho bisogno di voi, usciamo.
Premo invio, comincio a piangere.
Capitolo 1
Non ricordarsi mai Picenum
«E quindi, che vuoi fare?»
Faccio spallucce e bevo con fintissima nonchalance un altro sorso del mio drink: odio il fatto che i miei drammi sentimentali siano diventati l’unica fonte di conversazione con le mie migliori amiche. Voglio dire… lo scioglimento dei ghiacciai, Salvini, Kate Middleton in formissima dopo il parto: tutti validi argomenti di cui ritengo imprescindibile discutere tra un gin tonic e l’altro.
«Cosa vuoi che faccia?» sento che Cassandra domanda sarcasticamente, mentre io, con la cannuccia, raschio rumorosamente il fondo del bicchiere. «Lo deve mollare e basta, una volta per tutte.»
«Come fai a essere così dura, Cas? Sono quattro anni…» replica Nina, stupita da quella presa di posizione così netta.
«Appunto. Sono quattro cazzo di anni.» Cassandra inizia a innervosirsi. «Se dopo quattro anni ti scopi un’altra…»
Appoggio con più forza del dovuto il bicchiere, ormai vuoto, sul bancone del bar, impedendo a Cassandra di argomentare oltre.
Cas e Nina si voltano a guardarmi preoccupate, rendendosi conto della mia irritazione crescente, mentre io comincio ad agitare vigorosamente la mano facendo un cenno al barista. Non appena vedo che mi ha notata e che si sta avvicinando, mi rivolgo alle mie amiche con tono perentorio: «Non sono uscita per parlare di queste cazzate. Sono uscita per bere. E ora, noi tre, beviamo.»
Poi mi dedico interamente al barista, che nel frattempo si è piazzato di fronte a me dall’altra parte del bancone, e, cercando di sovrastare la musica assordante per farmi sentire, ordino altri quattro gin tonic.
Lui corruga le sopracciglia e mi mima un tre con le dita, indicando me e le mie amiche.
Scuoto la testa e ripeto, sporgendomi di più verso di lui perché capisca meglio: «Io ne bevo due!»
L’occhiata perplessa che getta alle mie spalle subito dopo la mia ordinazione mi fa intendere che le mie amiche si stanno sbracciando per convincerlo a propinarmi qualcosa di annacquato o, peggio, di analcolico. Mi volto di scatto e, come previsto, le becco entrambe con le braccia in aria e gli occhi sbarrati. Colte in flagrante, si mettono distrattamente a guardarsi intorno con le mani ancora sopra la testa, fingendo di ballare la musica che martella nelle casse poco distanti da noi.
«E fatevi un po’ di cazzi vostri, voi due!» le riprendo, sbuffando.
Nina abbassa le mani e mi pianta addosso due occhi accorati da dietro la frangetta chiara. «Ultimamente bevi un casino, Lali…»
«Anche nei giorni infrasettimanali» sottolinea Cas lanciando uno sguardo complice a Nina, quasi si fossero già accordate in precedenza su come farmi un bel discorsetto pieno zeppo di Siamo preoccupate per te.
Alzo gli occhi al cielo e mi volto in fretta a studiare i gesti veloci del barman, visto che non ho alcuna intenzione di cadere nella loro trappola.
«Domani hai anche lezione!» rincara Cas, facendomi venire quasi da ridere.
«Il bello del mio corso di Lettere moderne è che non frega a nessuno se ci sei o meno. La qual cosa, in effetti, è controbilanciata dal fatto che a ogni angolo rischi di scivolare su fricchettoni bohémien che si sentono dei poeti maledetti solo perché reggono Kafka da un lato e una canna dall’altro.»
«Guarda che io ti invidio» replica Nina mentre, con il solito scrupolo, si mette a posto la frangetta già in ordine. «Da me ci sono solo montati che passano tutta la vita a studiare Anatomia ma che non vedranno mai una vagina dal vivo…».
Cerco di non ridere alla battuta perché sono ancora un po’ offesa dal suo tentativo poco velato di farmi riflettere sulla mia recente deriva alcolica, mentre tra me e me stabilisco che ai medici preferisco decisamente i fricchettoni con un debole per gli spinelli (nonostante spesso sia faticoso avere a che fare con gente che si sente realizzata solo a dibattere dei problemi degli operai sotto il regime zarista della Russia prestaliniana).
Ho sempre amato la letteratura e iscrivermi a questo corso universitario è stato per me quasi un automatismo, ma al contrario di tutti i miei compagni non sono mai stata una grande fan delle lotte ideologiche. L’unica volta che, al liceo, ho aderito a una protesta è stato perché il tizio che mi piaceva era rappresentante di istituto e mi aveva convinta, come c’era scritto su tutte le lenzuola penzolanti dalle finestre del liceo, a Okkupare insieme a lui.
Avevamo okkupato la scuola per due giorni interi. Non ho idea, né ora né tanto meno ce l’avevo all’epoca, del motivo per cui fossimo tanto indignati, ma era stato stupendo: ci sentivamo un po’ come i protagonisti di The dreamers, avevamo i megafoni, le ciabatte ai piedi, urlavamo in coro frasi banalissime in rima, fumavamo tanto, limonavamo con i rappresentanti d’istituto.
O, quantomeno, io ci limonavo.
Mi secco in un sorso ciò che resta del mio gin tonic.
«Ma chi cazzo l’ha mai votato, poi…» domando ad alta voce a nessuno in particolare.
«Cosa?» mi chiede Nina spaesata, senza capire il filo dei miei pensieri.
Alzo la voce per farmi sentire sopra la musica. «Mi stavo chiedendo: chi cazzo l’ha mai votato, Tazio, come rappresentate di istituto? Io no di certo. Parliamoci chiaro: quando mai, nella vita vera, uno con un nome del genere vince le elezioni di qualcosa?»
Cas e Nina cambiano espressione e assumono la tipica faccia da Poverina, è così patetica che tante volte ho visto loro rivolgermi in questi ultimi mesi. Stanno pensando che sono matta a rivangare questioni liceali accadute quasi un lustro fa, ma mi lasciano fare solo perché ho il cuore a pezzi.
E io me ne approfitto ancora un po’. «Intendo: hai un nome che fa schifo, non puoi avere una vita felice. No?»
Cas tenta rapidamente di cambiare discorso. «Stai davvero tirando fuori l’argomento con la tua migliore amica di nome Cassandra? Una brutta stronza che nella mitologia greca non fa altro che predire morti e sventure a chiunque le capiti a tiro, senza mai essere ascoltata?»
Scoppio a ridere di una risata che si confonde con la musica, ma quando finisco mi rendo conto che Tazio è ancora lì, piantato nella mia testa, con lo stesso sorriso di quando l’ho conosciuto a diciassette anni, la pelle abbronzata, gli occhi caldi.
Il barista, nel frattempo, ha appoggiato i gin tonic alle mie spalle; ne afferro due in uno slancio felino, prima che Nina e Cas possano obiettare di nuovo. Li tracanno in pochi sorsi, anche se è un giorno infrasettimanale e domani ho lezione.
Cas mi guarda con un cipiglio corrucciato e io intravedo la profezia di sciagura nei suoi occhi.
Sono quasi le tre di notte, e proprio mentre guardo l’ora sul cellulare mi rendo conto che Tazio mi ha scritto un messaggio.
TAZIO, 02:47
Mi manchi davvero.
In un ennesimo impeto di rabbia, tengo premuto il tasto rosso e spengo definitivamente il cellulare. Sono abbastanza ubriaca da rischiare di rispondergli con frasi troppo offensive (o troppo sdolcinate, cazzo!), quindi decido che questa è la soluzione migliore. Tocco appena Cas sulla spalla; Nina è già andata via perché lei, al contrario di me, domani a lezione deve andarci sul serio.
«Cas, sono distrutta» le dico sopra la musica, mentre indico l’uscita.
Annuisce, poi dice qualcosa di veloce all’orecchio di Luca, magicamente comparso nel locale in chissà quale momento della serata; Cas lo prende per mano e mi segue, mentre mi faccio strada tra gli ultimi sopravvissuti della discoteca, pochi individui che sgambettano a un ritmo tutto loro e coppiette neoformate che stanno consumano quelli che hanno tutta l’aria di essere dei preliminari al centro della pista da ballo.
Non sono mai andata forte coi rimorchi in discoteca, non sono un tipo molto appariscente e in posti come questi non si riesce a fare delle conversazioni particolarmente profonde. Non che abbia mai avuto la possibilità di avere un legame di una sera con qualcuno, comunque: ho cominciato ad andare in discoteca parecchio tempo dopo aver conosciuto Tazio e non sarei mai stata neanche lontanamente interessata a tradirlo con qualcuno di passeggero.
A questo pensiero inizio a boccheggiare… di nuovo.
L’aria fuori è fredda e mi entra nei polmoni facendo ricominciare a funzionare correttamente il mio apparato respiratorio. Mi rendo conto che sta ancora piovendo.
«Che freddo…» mormoro scrutando il cielo, sfregandomi le mani sulle braccia nude e appiattendomi come posso contro il muro dell’edificio, al riparo dalla pioggia. «Chiamo subito mio fratello. Vuoi un passaggio a casa?» domando a Cassandra.
Lei mi guarda con gli occhi spalancati. «Tuo…» biascica. «No, no, grazie mille. Mi porta Luca. Tanto va nella mia direzione, vero?» Si rivolge al ragazzo di cui tiene ancora la mano con un sorriso smagliante.
Lui ricambia il sorriso, un po’ impacciato. «Più o meno…» Estrae le chiavi e fa scattare l’apertura di una Panda parcheggiata proprio dall’altro lato della strada.
Luca non abita affatto nella sua direzione, ma agli occhi grandi di Cas non si può proprio dire di no.
La differenza tra noi, comuni mortali, e lei, di una perfezione eterea e irreale, è sempre stata piuttosto evidente fin da quando ha deciso di dare un taglio definitivo alla sua immagine di bambina spaurita, presentandosi a casa mia con i capelli cortissimi e un ciuffo irriverente sul davanti; scelta che, ricordo bene, aveva piuttosto scandalizzato la sua sofisticata madre cittadina, abituata a una figlia con gli stessi lunghissimi capelli lisci e ordinati sin dall’infanzia.
Il contrasto tra i suoi lineamenti fini, gli occhi neri da cerbiatta e quel taglio maschile è ciò che di più ha sempre affascinato chi le stava intorno. I suoi colori – tipicamente mediterranei, con la pelle olivastra, abbronzatissima d’estate, e i capelli nero corvino – e il suo fisico – magro e slanciato con pochissime curve – la fanno sembrare una di quelle modelle che pubblicizzano, completamente struccate, creme viso costosissime sulle riviste. La sua bellezza non è mai stata prorompente o appariscente, ma discreta e totalizzante, tanto da stregare chi la capiva; e quelli che l’hanno amata l’hanno sempre fatto con tale passione da impazzire letteralmente per lei.
Guardo il povero Luca con un sorriso triste: sembra incarnare il perfetto prototipo di bravo ragazzo che perde la testa per Cassandra a prima vista, forse folgorato dalla delicatezza dei suoi modi in quella libreria in cui lei ha trovato lavoro subito dopo il diploma.
Cassandra non ha mai fatto fatica a concedersi, e nell’ultimo anno non è stato raro vederla accompagnata da ragazzi sempre diversi, che in comune l’uno con l’altro avevano soltanto la passione sfrenata per quella ragazza introversa dagli occhi magnetici: nessuno di loro, comunque, è mai riuscito a durare per più di un paio di appuntamenti.
Cas mi dà un bacio veloce sulla guancia. «Un sorriso, Lali?»
Chiudo gli occhi e faccio un sorriso esagerato, disegnando con le dita una curva che continua oltre gli angoli della bocca. Poi mi appoggio al muro con la schiena per non rischiare di perdere l’equilibrio: i gin tonic mi stanno appannando leggermente la vista e quando riapro gli occhi noto che Cassandra e Luca si stanno già allontanando in fretta sotto la pioggia.
Arrivati ormai dall’altra parte della strada, Cas si volta nuovamente verso la mia direzione. «Non ci pensare più, okay? Dimenticalo, quel bastardo fedifrago figlio di puttana!» Mi lancia un bacio da lontano e sale veloce sulla macchina, senza attendere risposta.
Mi ritrovo da sola sotto la tettoia, con la musica della discoteca attenuata in sottofondo, paralizzata da quelle ultime parole, che mi riportano la consueta sensazione di vuoto cosmico nelle budella, proprio come ogni maledetta volta in cui penso a Tazio da sei mesi a questa parte.
Solo alcuni secondi e, qualche gelidissimo respiro profondo dopo, riesco finalmente a riprendermi.
Estraggo con movimenti impacciati il cellulare dalla tasca dei jeans, ma sullo schermo compare una sola scritta.
Inserire codice PIN.
Oh porco cazzo.
«Cas!» grido con voce strozzata verso la macchina che è appena sparita dietro l’angolo. «Cassandraaa!» ripeto, facendo qualche passo disperato, ma so che non può sentirmi.
Rimango a bocca aperta, infreddolita, completamente ubriaca, sotto la pioggia, in mezzo a una strada praticamente deserta, alle tre di notte, col cellulare di cui non ricordo assolutamente il PIN sul palmo aperto della mano.
Sto per fare ciò che una vera ragazza matura come la sottoscritta farebbe in questo caso – raccogliermi in posizione fetale e singhiozzare chiamando la mamma – quando sento una zaffata di fumo provenire dalle mie spalle.
Mi riprendo istantaneamente e mi volto di scatto, speranzosa.
«Ombroso ragazzo tatuato!» esclamo come se avessi vinto alla lotteria, più a me stessa che a lui, indicandolo.
Se ho detto una cosa del genere ad alta voce devo essere più ubriaca di quello che pensavo.
«Strillante ragazza ubriaca» mi risponde lui, atono, senza nemmeno alzare lo sguardo dallo schermo del cellulare.
Non mi ero nemmeno accorta della sua presenza fino a questo momento. È riparato sotto la tettoia del locale ed è appoggiato al muro, a qualche metro da me, con una sigaretta in una mano e il cellulare che gli illumina fiocamente il viso nell’altra.
In soli tre passi mi avvicino. «Ciao», gli dico, o meglio, gli grido, con un sorriso smagliante e vagamente ridicolo. «Hai una sigaretta?» Poi ci ripenso. Mi impongo di abbassare il volume della voce di un paio di toni. «No, scusami, non è questo che volevo chiederti. Anzi, in realtà, ora che ci rifletto, se tu avessi anche una sigaretta non sarebbe male.» Lui non alza lo sguardo neanche ora che gli sono arrivata di fronte. «Ma sicuramente sì, sicuramente la precedenza ce l’ha il tuo cellulare. Intendo… mi servirebbe per fare una chiamata. Lungi da me risultare prolissa, ma ho spento il mio per un errore di calcolo e si dà il caso che ora non ricordi il PIN di accesso, che per la cronaca ho saggiamente memorizzato nella rubrica del cellulare stesso…»
«Sì che lo risulti» risponde buttando fuori del fumo dalla bocca, che si dilegua rapidamente nell’aria umida intorno a noi. Continua a guardare lo schermo del suo cellulare, imperterrito, scrivendo un messaggio con la mano libera. «Prolissa, intendo» aggiunge dopo qualche secondo, arricciando leggermente il naso e premendo invio col pollice.
«Ah…» Rimango di stucco, sconcertata da tanta maleducazione. Bastano pochi attimi di smarrimento per farmi raddrizzare le spalle con un impeto di orgoglio, mentre ripenso a Xena e Dacia Maraini. «Okay, be’, sai una cosa, ombroso ragazzo tatuato? Con questa rispostaccia incarni proprio un cliché, una macchietta, un Mr Grey qualunque, tanto da risultare, se posso aggiungere, vagamente anacronistico.» Do forza a ogni parola scuotendo l’indice davanti al suo petto.
Finalmente il tizio decide di alzare gli occhi, piantandomi addosso uno sguardo attento.
Mi pento quasi subito di aver fatto un riferimento letterario a un libro erotico, preoccupata di passare per una bambinetta pervertita che, nel tempo libero fantastica su milionari con la passione nascosta per il sadomaso, ma sono fermamente convinta che la dicitura a briglia sciolta sia stata coniata da qualcuno che mi ha incrociata sulla strada dopo una sbornia di gin tonic… e in questo momento, se solo mi venisse domandato, confesserei perfino di essere stata io l’artefice di quello sgambetto che in terza elementare è costato una frattura all’anca a suor Fiorenza.
Grazie al cielo, il tizio tatuato non mi chiede dell’incidente a suor Fiorenza e tralascia la mia citazione da un libro erotico.
«Tu sei ubriaca e usi il termine anacronistico?»
Sembra divertito, ma non ride. O sono io che non riesco a capire del tutto la situazione – cosa probabile, non lo nego – oppure questo tizio ha avuto una pessima serata.
Gonfio il petto, inorgoglita. «Confermo e sottoscrivo. Sei estremamente anacronistico, caro Ooombroso» dico di getto, allungando la O senza un particolare motivo e barcollando un pochino. Faccio un cenno con il capo verso la sua figura. «Appoggiato con un piede al muro, sigarettina piantata in bocca, tutto strafigo nella sua aura da cattivo ragazzo tormentato che si tatua contro un mondo che non lo accetta. Praticamente, saresti l’eroe banale di un libro di Jane Austen se fosse vissuta in questo secolo.»
Già, e io devo decisamente piantarla coi gin tonic.
«Tu sei matta da legare» commenta giustamente, terminato il mio sproloquio e, dopo aver preso un pacchetto di sigarette dalla tasca, me ne porge una. «Immagino tu sia maggiorenne» dice, alzando un sopracciglio e aprendosi finalmente in un sorriso sarcastico.
Fanculo il sarcasmo, comunque. Il suo sorriso, come direbbe Junior se fossimo in una puntata di Dragon Ball, ha un’aura potentissima: è talmente travolgente da renderlo quasi un’altra persona, ne rimango abbagliata. E solo in quel momento gli concedo un attimo di tregua per studiarlo nella sua interezza: i capelli sono scuri e arruffati, forse dalla pioggia, e ha la barba incolta di qualche giorno. Sembra mio coetaneo, forse qualche anno di più, ma l’atteggiamento è quello di un uomo maturo. Anche se è appoggiato al muro, si vede che è molto alto. Azzarderei un metro e novanta. Porta una giacca marrone scuro piuttosto pesante e sul collo e parte delle mani si intravedono dei tatuaggi complicati che probabilmente continuano anche sul resto del corpo. Gli occhi sono piccoli e scuri, ma guizzano su di me, che lo fisso, in una maniera che mi imbarazza, costringendomi a distogliere immediatamente lo sguardo.
Accetto volentieri la sigaretta mentre anche lui mi squadra da capo a piedi.
Mi domando cosa può vedere… una ragazza sfatta e palesemente su di giri, bagnata come un pulcino, con il trucco colato fino alle guance, i capelli rossicci attaccati alla faccia, gli occhi ancora arrossati a causa di quell’ora e mezza al ristorante trascorsa a piangere seduta sulla tazza del water. Se avessi un paio di pitbull al guinzaglio, probabilmente passerei per una tossica che elemosina due euro per il biglietto del treno.
«Non mi giudicare…» borbotto, rispondendo al suo sguardo indagatore con una smorfia, «di solito sono una gran figa.»
«Ehi, gran figa» replica con un sorriso di scherno, indicandomi. «Ti stai dando fuoco ai capelli.»
Urlo un’imprecazione e comincio a prendermi a pacche la spalla con le mani, mentre l’odore acre dei capelli bruciati mi riempie le narici. «Che serata di merda!» esclamo frustrata, saltellando sotto la pioggia e continuando a sfregarmi i capelli come una matta, anche se il fuocherello che ho appiccato si è spento subito. «Non è giusto! Una povera ragazza che serve ai tavoli per cinque ore filate e che viene pure sgridata dal suo capo perché riesce a rompere – nell’ordine – due bicchieri di vetro, di cui un calice da vino e una coppetta per il gelato all’amaretto…»
«Oh, questa sì che è roba tosta!»
Faccio finta di non sentire il suo commento e proseguo la mia lamentela, demoralizzata. «… una povera ragazza che voleva solo divertirsi e ubriacarsi con le migliori amiche…»
«Be’, a giudicare da come barcolli direi che questo ti è riuscito bene.»
«… abbandonata a se stessa sotto la pioggia» lo interrompo con sguardo serio, «senza cellulare né modo alcuno per tornare sana e salva a casa…»
«L’uso della terza persona rende tutto molto melodrammatico.»
«… il tutto, ricordiamolo, dopo circa otto ore sui libri a studiare la suddivisione delle regiones romane di Augusto…»
«Non mi è chiaro dove tu voglia andare a parare.»
«Latium et Campania!» urlo, puntando un dito al cielo, noncurante dei suoi commenti in sottofondo. «Apulia et Calabria! Lucania et Bruttii!»
«Ah, ecco dove volevi andare a parare» commenta lui perplesso, mentre io continuo, indicando il cielo.
«Samnium!»
«Hai rotto il cazzo, esaltata» sento dire candidamente a qualcuno di sconosciuto dall’altro lato della strada.
Mi volto di scatto e faccio qualche passo sotto la pioggia, fuori di me. «Ehi, porta rispetto verso l’impero che ti ha dato i natali!»
Sento il ragazzo con cui stavo parlando – o forse dovrei dire… che mi ascoltava durante il monologo – che mi trattiene per un braccio e, con uno strattone, mi fa tornare al riparo sotto la tettoia.
«Allora, Furia, dai dell’anacronistico a me e poi sguaini la spada in difesa dell’antico Impero romano?»
Mentre lo dice è serio, ma mi sembra che sorrida con gli occhi.
«Effettivamente, se la metti così» brontolo. «E per fortuna mi hanno interrotta, perché giuro che non mi sarei ricordata la regione successiva.»
«Picenum» dice lui facendo spallucce.
Io apro la bocca, fissandolo, poi la richiudo senza dire nulla.
«Che c’è?» Mi guarda di sottecchi. «Il ribelle che lotta contro il mondo ama la storia. Siamo nel ventunesimo secolo, avere dei tatuaggi non è necessariamente sinonimo di cattivo ragazzo.» E poi aggiunge con un ghigno divertito, scrutando il mio sguardo perplesso: «E scommetto che il bastardo fedifrago figlio di puttana che ti ha spezzato il cuoricino non era tatuato.»
Vacillo. Ha evidentemente sentito l’ultima frase che mi ha rivolto Cassandra prima di andarsene.
Ripensare a Tazio mi coglie più impreparata del solito e l’onda d’urto che mi penetra nello stomaco è più forte che mai, perché questa volta non è solo una riflessione generica a lui, a ciò che ha fatto, a ciò che è perso, ma è un’immagine. E, purtroppo, è un’immagine anche troppo vivida: non riesco a cancellarla dalla mia testa, quella della schiena mezza nuda, coperta per metà da un lenzuolo, da cui si intravedono piccole linee nere.
Un tatuaggio sul fianco… è stata la prima cosa strana che ho visto, dentro quella stanza calda e mezza buia. E poi, confusa, il mio primo pensiero compiuto: Si è fatto un tatuaggio e non me l’ha detto?
Improvvisamente, sento ritornare quella nota sensazione di malessere che mi blocca le vie respiratorie. Solo che, questa volta, non so come trattenerla: è forte e io non sono affatto pronta a respingerla.
Mi volto di scatto, mi fiondo verso il ciglio del marciapiede e butto fuori tutti i gin tonic che ho ingurgitato nelle ultime ore. Ci metto qualche secondo a rendermi conto che il ragazzo appoggiato al muro mi sta sorreggendo, tenendomi indietro i capelli.
«Vai via!» biascico, piegata verso la strada, e comincio a spintonarlo lontano: non voglio essere vista in queste condizioni.
Lui però non si muove, la sua stretta è ferma. Mi guarda dall’alto, senza battere ciglio, con i capelli che si scuriscono bagnandosi di pioggia.
«Che figura di merda, che figura di merda…» dico tra me e me, ad alta voce, guardando il marciapiede bagnato, mentre mi dimeno e continuo a dare sberle all’aria, nel tentativo di allontanare il tatuato. Sento che lui ride mentre schiva i colpi.
Mi gira tutto, e quando mi rialzo ho più freddo di prima. Batto i denti visibilmente, le mie scarpe sono zuppe e mi stringo le braccia intorno al corpo. Mentre parlo, mi vergogno così tanto da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia. «Se tu potessi chiamarmi un taxi…»
Il numero di telefono di mio fratello non lo ricordo a memoria e chiamare i miei a quest’ora è fuori discussione.
Lui si toglie la giacca e me la mette sulle spalle. «A quest’ora i taxi te li scordi. Se mi prometti che non vomiti in macchina e ci diamo una mossa, ti porto a casa io» mi dice, rivolgendomi un sorriso stanco e alzando il cappuccio della felpa sulla testa.
Non ho assolutamente voglia di rispettare le regole base dell’educazione: No, grazie, non è necessario, me la posso cavare anche da sola. Nell’arco di un minuto e mezzo circa, sono riuscita a darmi fuoco ai capelli, immolarmi in nome dell’antica Roma e vomitare l’anima su un marciapiede e su gran parte delle scarpe: non è la serata giusta per rifiutare un aiuto e fare gli eroi.
Mi limito a guardarlo con gratitudine, sia per l’offerta di passaggio che per la giacca. Mi fa cenno di seguirlo e, a testa bassa sotto la pioggia battente, ci dirigiamo verso la sua macchina.
Una volta seduta, mi raggomitolo infreddolita e annuso il profumo che emana la giacca. Vengo colpita dall’odore piacevole della pelle, misto a una fragranza più leggera e tenue. È il tipico profumo che il maschio alpha usa in discoteca, quello che pubblicizzano alla televisione in cui compare un uomo a petto nudo muscoloso che, tutto altezzoso, viene seguito da una scia di donne in visibilio… Mi volto a guardarlo: potrebbe tranquillamente essere quell’uomo.
Anche lui mi guarda e per un attimo i nostri occhi si scrutano in silenzio.
Poi parla lentamente, come se fossi demente. «Se non mi dici dove andare, stiamo qua tutta la sera…»
Io sgrano gli occhi. «Sì… scusa. Di fronte al Borgo Antico, grazie» rispondo concitata, dandogli l’indicazione del ristorante in cui lavoro, a qualche centinaio di metri da casa mia.
Lui mette in moto e io mi soffermo sulle mani che stringono il volante.
«Li hai ovunque?» Indico i tatuaggi. Sulle nocche ha tatuate delle lettere, mentre il resto è un grande marasma di linee e ombreggiature scure.
«Sì», risponde. Poi si volta verso di me e aggiunge: «Quasi ovunque» facendomi l’occhiolino.
Rimango paralizzata.
Era una battuta maliziosa? Io non so mica gestirle, le battute maliziose.
«Perché ammicchi?» gli chiedo infatti, con un tono di voce forse troppo alto.
«Mi hai fatto una domanda… e io ho risposto» dice con semplicità, ingranando la prima.
Sono un bel po’ stordita, il freddo e i giramenti alla testa sono forti, l’odore della sua pelle comincia a confondermi, e mi rendo conto di parlare soltanto dopo che ormai ho già aperto la bocca. «No. Hai ammiccato. Ti ho visto chiaramente ammiccare. Hai lasciato intendere che fossi tatuato in tutte le parti del corpo.» Appoggio stancamente la testa sul finestrino e poi aggiungo: «Hai fatto quello strano tono quando hai detto Quasi ovunque. C’è stata anche una pausa di sospensione abbastanza importante tra le due frasi e… Ah! Hai pure aggiunto un eloquentissimo occhiolino finale.» L’ultima frase la dico sbadigliando e poi chiudo gli occhi. «Direi che tutto questo affaccendamento non può essere catalogato come semplice risposta.»
«Tu sei strana…» gli sento dire.
«Sì. Ma tu non ammiccare. Sei troppo figo per poterti permettere di ammiccare» rispondo vagamente, mentre la testa continua a girare, sempre più forte.
Cullata dalla sua risata in lontananza e dal ticchettio della pioggia sul parabrezza, piombo nel sonno.
Capitolo 2
Quella volta che è cambiata l’estate
Agosto 2010
Una tipica giornata estiva di città: caldo afoso, strade svuotate, edifici illuminati da un sole che non concede tregua e che rende tutto giallo e luminoso, ricoperto da una patina di sonnolenza e immobilità, soprattutto durante le prime ore del pomeriggio. Un pomeriggio che ha tutta l’aria di essere uguale a molti altri, di molte altre estati che sono state e che verranno. Estati trascorse su gradini, a fumare qualche sigaretta immerse nella tipica stasi liceale, che rende reali solo i momenti passati tra i banchi. Tutto il resto è contorno scomodo, è spreco; e in quello spreco noi viviamo la vita vera, evitando accuratamente di parlare di tutto ciò che rimanda all’inizio della scuola imminente, concentrandoci sugli ultimi residui di libertà concessi da questi mesi che sembrano non finire mai.
«Abbiamo deciso» sto dicendo a Nina e Cassandra con estrema serietà, «se non trovo l’uomo della mia vita, l’anno prossimo facciamo sesso.»
Nina mi guarda alzando le sopracciglia: «Wow! Verranno fuori tante belle scimmiette…»
«Cogliona.» Le do un pugnetto scherzoso sulle braccia candide. «Ti ho già detto che in foto viene male…»
Immane cazzata: so perfettamente che Pier, amico di vecchia data che rivedo puntualmente ogni estate al mare, è addirittura molto più brutto live, rispetto a come appare in foto.
«Lali, ha ragione Nina: quel tizio sembra uno scimmione. Ha il mascellone alla De Niro…» E mentre lo dice, Cas porta avanti la mascella in maniera esagerata. Quindi continua, con voce storpiata: «Ehi, io e te andare a fare zumba zumba nelle caverne, tu portare peli e io portare clava.»
Sto per ribadirle la cazzata che Pier in foto non rende proprio bene, quando una vecchia Pandina rossa si ferma con una frenata rumorosa in mezzo alla strada, giusto a qualche metro da noi. Ci voltiamo a guardare tra le risate: è strano trovare in giro qualcuno a quest’ora, in centro città e con questo caldo che sembra voler togliere il fiato.
Dal finestrino abbassato vedo sbucare la faccia di un bel ragazzo dai capelli castano chiari, che si protende in avanti. È abbronzato e la pelle dorata contrasta con il bianco abbagliante del suo sorriso. Non credo di averlo mai visto così bello come in questo momento, il braccio appoggiato fuori dal finestrino e gli occhi nascosti dietro un paio di Ray-Ban scuri.
«Ehilà, Nina!» esclama, attirando tutta la nostra attenzione. La mia amica gli sorride e si raddrizza in piedi confusa, mentre lui, dall’interno dell’auto, continua… «Ti servono i libri di quarta? Sto cercando qualcuno a cui venderli!»
Nina si avvia verso la macchina aggiustandosi prima le pieghe della gonna plissettata, poi la frangetta. Indossa uno dei suoi soliti vestitini chiari a fiori blu, col busto aderente e la gonna morbida a campana, e delle ballerine ai piedi. Non è il tipo che si abbassa a urlare a un ragazzo da una parte all’altra della strada e per questo la invidio molto: se lui avesse chiamato me, probabilmente avrei cominciato a correre senza dignità verso la Panda rossa con un sorriso a mille denti e due cuoricioni al posto degli occhi, rischiando di inciampare rovinosamente nei miei stessi piedi.
Nina, invece, con un sorriso genuino e una pacatezza invidiabile, cammina ancheggiando, la pelle chiarissima che quasi riflette il sole. Nonostante questo, mi sembra che il ragazzo alla guida stia fissando me, da lontano. E continua a farlo anche mentre Nina si appoggia al finestrino e gli dice qualcosa che non riesco a sentire.
Chiudo gli occhi a fessura, cercando invano di leggere il labiale dei due ragazzi.
«Maledetto club di aristocratici» sussurro a Cassandra guardando torva la scena, «tra di loro si conoscono tutti: è una setta. Io… è anni che provo a rivolgergli la parola e lui non mi si fila manco per il…»
«Lali!» Nina mi chiama, particolarmente raggiante. «Come sei messa coi libri di quarta?»
Scatto in piedi, quasi come se gli scalini su cui siedo fossero improvvisamente diventati bollenti.
Cassandra scoppia a ridere, quindi mi incita: «Falli secchi, Che Guevara.»
Raggiungo velocemente la macchina posteggiata in mezzo alla strada, imponendomi di non correre né di assumere quegli occhioni a cuoricione di cui sopra.
«Ciao», esalo, accaldata da quel breve sforzo fisico. Sento il vestito che indosso attaccarsi alla pelle e mi sembra che lui, dietro gli occhiali da sole, lo stia notando. «Effettivamente, io sarei interessata. Mi mancano ancora greco, filosofia e…»
«Oh, Tazio, leviamo il culo che sto da schifo…»
Sento un rantolo provenire dai sedili posteriori. Un ragazzo con i rasta che non avevo notato è spalmato sul retro e si tiene una gamba con entrambe le mani. Lo fisso con aria interrogativa.
«Adesso andiamo, cretino, torna a dormire» replica Tazio, improvvisamente infastidito.
«Proprio ora dovevi intrattenerti in convenevoli?» si lamenta ancora l’altro.
«Sì.» Tazio torna a guardarmi. «Proprio ora.»
Sento le viscere contorcersi e a malapena mi rendo conto che Nina mi sta tirando una gomitata nello stomaco.
«Scusalo» aggiunge il ragazzo, rivolgendosi ora esplicitamente a me. «Il coglione qui dietro ha avuto la brillante idea di dimostrare a tutti le sue doti di ginnasta, facendo una verticale.»
«Era una ruota…» bofonchia quello.
«Una ruota da ubriaco marcio. A giudicare dalle dimensioni spropositate della sua caviglia, si deve essere rotto qualcosa» conclude Tazio, rivolgendomi un sorriso.
«Quel prato era in pendenza…» borbotta il rasta da dietro.
«Era in pendenza anche prima che tu facessi la ruota, Ciubbe.»
«Sei in quelle condizioni da ieri sera?» chiedo stupita, indicando la caviglia, malamente fasciata con pezzi svolazzanti di carta igienica tenuti precariamente insieme da nastro da pacco.
«No, è appena successo, ma è da ieri pomeriggio che beviamo e…»
«Va bene, Ciubbe, non ammorbiamole con le nostre disavventure ginniche!» lo interrompe Tazio, e mi sembra imbarazzato da quello che il suo amico si apprestava a confessare.
«Non c’è niente da nascondere» sbotta l’altro, «ti sei fermato a rimorchiare solo perché sei ubriaco, altrimenti saremmo già in ospedale da un pezzo…»
«Le migliori cose nascono dalle migliori sbronze» intervengo io, facendo un occhiolino a quel tizio che a scuola vedo sempre, immancabilmente a fianco di Tazio, e che, a quanto pare, fa Ciubbe di soprannome.
Non che io sia un’accanita bevitrice, ma ogni tanto capita anche a me di esagerare con l’alcol… magari non di sabato. Alle tre di pomeriggio. Con una temperatura esterna percepita di sessanta gradi all’ombra.
A ogni modo pare che io abbia fatto centro, dal momento che Tazio sembra rilassarsi dopo la mia risposta.
«Se ci scambiamo i numeri, poi ci possiamo mettere d’accordo per i libri.» Mi sorride. «Io, comunque, sono Tazio.» E allunga una mano oltre il finestrino, ignorando che io so da tempo non solo il suo nome, ma anche il cognome, la scadenza della carta d’identità, il codice Iban, e pure quell’aneddoto di lui che, da piccolo, rimane incastrato con la testa nella ringhiera della sua casa in montagna.
«E la sventurata rispose…» dice ironico Ciubbe dai sedili posteriori, facendo roteare gli occhi al cielo.
«Laura. Io sono Laura» ribatto io. E spero con tutta me stessa che Tazio non noti il tremolio della mia mano non appena entra in contatto con la sua.
«Ottimo… Laura» ripete lui, esibendosi in uno dei suoi sorrisi mozzafiato che di solito vedo indirizzare a gente del suo calibro. «Sei una ragazza fortunata: ti passerò dei libri usati così nuovi da arrivare addirittura a pensare che il proprietario precedente non li abbia aperti nemmeno una volta.»
Nina sposta lo sguardo lentamente da lui, che sorride, a me, inebetita, e sussurra ironica: «Sì, Laura, ragazza fortunata.»
Le mollo un piccolo calcio sullo stinco, senza farmi vedere, mantenendo un sorriso smagliante, come se scambiarmi il numero con ragazzi bellissimi in mezzo alla strada sia per me la normalità.
«Esigo uno sconto» dico, senza staccare gli occhi da lui. «Mi toccherà fare tutti gli esercizi di greco di mio pugno, se chi aveva il libro prima di me non li ha già fatti.»
«Ehi, giuro che appena arrivo a casa ti completo tutti gli esercizi che non ho mai fatto» esclama dietro gli occhiali da sole.
«Sì, certo, da ’mbriago come una rana…» commenta Ciubbe dal retro.
Tazio fa finta di non sentirlo. «Aoristi e ablativi assoluti tutta la notte, se necessario.»
Io e Nina scoppiamo a ridere, e lei interviene nel discorso: «Tu lo sai che l’ablativo assoluto è un costrutto latino e non greco, vero?»
«No che non lo sa…» commenta Ciubbe con fare annoiato.
«Certo che lo so, per chi mi avete preso?» Poi si rivolge ancora a me: «Farò quegli esercizi così bene e i tuoi voti subiranno un’impennata così drastica, che sarai tu stessa a invitarmi a cena per cercare di sdebitarti.» Mi sorride furbo, mentre io cerco di mantenere un’espressione neutra, anche se mi stanno per cedere le gambe.
Questo ragazzo non si immagina neppure in quanti modi, negli anni, io abbia cercato di attirare la sua attenzione: appostamenti tattici in corridoio davanti alla sua aula, partecipazione attiva durante i suoi comizi in qualità di rappresentante degli studenti in Auditorium. Insomma, l’impegno nel conoscere quel Tazio Rigoni e il suo sorriso mozzafiato ha impiegato parecchie risorse e dispiegamento di mezzi, ma nonostante questo non sono mai riuscita a farmi notare, arrivando ad arrendermi definitivamente nella consapevolezza che, al termine dell’anno scolastico a venire, non lo avrei più incrociato tra un’ora di lezione e l’altra.
Oggi, invece, capito qui senza pretese, lui spunta dal nulla, mi sorride, e non solo mi rivolge la parola… ma pure mi chiede il numero di telefono alludendo a cenare fuori?
Il cuore minaccia di portarmi prematuramente su un lettino di Cardiologia. Incrocio lo sguardo di Nina che, al mio fianco, attende come Tazio la mia risposta con le sopracciglia alzate e un sorrisone sornione piantato in volto. Annuisce con foga, aprendo gli occhi per farmi capire che non posso esitare oltre.
«Accetto l’offerta volentieri. Ho davvero bisogno di un’impennata alla mia media di greco, che di solito si aggira intorno al quattro virgola tre.»
«Anche la sua» interviene Ciubbe molesto.
«Senti, Jury Chechi, ma tu da che parte stai?» sbotta Tazio, girandosi verso l’amico.
«Dalla parte degli onesti» risponde quello, solenne. «E degli amici che ti portano all’ospedale quando stai per svenire dal dolore.»
Nina ride e risponde al posto di Tazio: «Se, come dici tu, il problema è la caviglia, ti faranno solamente stare a riposo un paio di giorni.»
«Vieni a casa a curarmi tu?» le domanda Ciubbe con un guizzo improvviso, come se si fosse accorto di lei solo in quel momento. Per la prima volta, si muove dalla sua posizione distesa per sbucare con la testa tra i sedili anteriori, protendendo le braccia verso Nina. «Aiutami! Ti prego, dolce ragazza dalla pelle diafana e dalla bocca sanguigna, solo le tue tenui mani sul mio vigoroso corpo potrebbero alleviare il mio male incurabile!»
Nina spalanca gli occhi, sbigottita da quella rinascita improvvisa da parte di uno che, fino a quel momento, aveva solamente borbottato qualche rispostaccia tagliente con la voce cavernosa dei moribondi.
Tazio lo prende in giro: «Sei diventato vigoroso e io non me ne sono accorto?»
«Dolce ninfa dei boschi, divinità celeste, sacra e pudica pulzella! Alleggerisci il mio peso, guàda il mio animo…» continua quello imperterrito, facendo ridere sia me che Nina a crepapelle.
«Ma piantala, Ciubbe.» Tazio gli tira una gomitata nelle costole, poi cerca di spingerlo di nuovo nel retro della macchina. Nel frattempo, si rivolge a noi: «È meglio se andiamo. Venite alla festa di Ciubbe, sabato? Così io e Laura ci mettiamo d’accordo meglio…»
«Creatura ultraterrena! Angelo guaritore! Ippocrate dei tempi moderni!» La testona del rasta sbuca nonostante i tentativi di Tazio di respingerlo.
«Vi mando l’invito via Facebook. Okay?»
Io e Nina annuiamo divertite, mentre lui accende la macchina e l’altro continua a urlare: «Salvami! Sono spacciato, senza di te, mia tenerissima…» Si interrompe. «Com’è che si chiama?»
«Nina» sbuffa Tazio, mettendo in moto e rivolgendomi un ultimo sorriso.
Io ricambio, ancora sottosopra.
Il rasta non si dà per vinto e si lancia con tutto il busto fuori dal finestrino, le braccia spalancate verso di noi mentre la macchina si allontana: «Tenerissima Nina! Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.»
«E così ti sei giocato l’unica frase di Shakespeare che conosci» sottolinea la voce ormai lontana di Tazio.
«Ninetta mia, a crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio.»
«Siamo in agosto, Ciubbe…»
«Ehi, non si storpia De André, okay?» E poi ancora, poco prima di vedere la Panda svoltare l’angolo: «Ninetta bella, dritto all’inferno, avrei preferito andarci d’inverno!»
La Panda scompare dal nostro orizzonte e io e Nina rimaniamo ferme nell’improvviso silenzio che ci circonda.
Ci metto un attimo a realizzare ciò che è appena successo: il caldo afoso si riappropria di me in una frazione di secondo, il sole si diverte a picchiarmi sulla testa con una pala e le goccioline che ho sul collo lasciano una lunga scia scendendo lungo la schiena. Mi metto le due mani sulle guance che sento avvampare, premendomele forte, mentre Nina si volta a guardarmi con gli occhi sbarrati, toccandosi la frangetta con quel suo tic nervoso che la contraddistingue da sempre. Scoppiamo a ridere all’unisono, nel silenzio della città abbandonata, mentre mi chiedo se quello che è appena successo è stato frutto della mia immaginazione o se, davvero, Tazio Rigoni non solo mi ha rivolto la parola, ma mi ha anche invitata a una festa.
Lo stupore generale è rotto dalla voce lontana di Cassandra: «Ma che cazzo di problemi aveva quel tipo?»
Io e Nina ci scocchiamo un’occhiata d’intesa e torniamo dalla nostra amica, ancora seduta all’ombra dei gradini.
«Avevo capito che i libri di quarta te li aveva già passati tuo fratello» mi dice Nina mentre camminiamo.
«Infatti», rido. «Li ho già tutti quanti da un pezzo.»
Capitolo 3
Ubriaca tra le pagliuzze
Apro gli occhi lentamente, mentre sento qualcuno scuotermi con delicatezza il braccio.
«Ehi, Sbocchina, siamo arrivati» dice una voce che fatico a riconoscere.
La mia faccia è spalmata sul vetro freddo dell’automobile, e la prima cosa che vedo sono delle goccioline che scendono veloci dall’alto. Fuori, la strada è buia e sembra che la pioggia sia aumentata rispetto a quando siamo partiti. Si sente scrosciare forte sulla carrozzeria e, con una parvenza di lucidità che non credevo di possedere ancora, riesco a pensare al fatto che, forse, il rumore della pioggia che picchietta quando si è chiusi in una macchina è ciò che di più magico ha creato la natura.
Stacco velocemente la faccia dal vetro e, in maniera davvero poco elegante, mi asciugo un lato della bocca da cui è fuoriuscito un rivoletto di bava. Ho ufficialmente toccato il fondo, mi dico mentre mi volto imbarazzata verso il guidatore, che mi sta fissando con espressione indecifrabile.
«Scusami…» dico in fretta, togliendomi la sua giacca e posandola sul cruscotto. «Non ti ho nemmeno tenuto compagnia durante il viaggio. Sono davvero una pessima ubriacona.»
«Mi hai tenuto compagnia eccome: hai russato» afferma lui, massaggiandosi le tempie con gli occhi chiusi. Sembra molto stanco e io mi soffermo a osservarlo compiere quel gesto un secondo di troppo.
Per togliermi dall’imbarazzo, replico in fretta: «Io non russo!»
«Hai russato, eccome.»
«No, ehi, fermi tutti, io mi conosco bene e quando dormo faccio cose strane, ma non ho mai russato.»
«Cose strane, tipo?» mi scruta un po’ dubbioso, come se nemmeno lui fosse sicuro di voler sapere la risposta.
«I miei genitori giurano che in seconda elementare mi hanno trovata in cucina intenta a sbattere un merluzzo sul tavolo, e alla richiesta di spiegazioni ho risposto che volevo riportarlo in vita.» Poi mi soffermo un attimo a pensare. «E Cas, la mia migliore amica, mi ha detto che una notte mi ha beccata mentre facevo stretching affianco al letto e, quando mi ha chiesto che razza di problemi avessi, io le ho risposto che mi stavo preparando per saltare.»
«Saltare?»
«Sì, saltare dal trampolino.» Annuisco convinta, mentre lui non fa altro che fissarmi perplesso. «In quel periodo guardavo molto le Olimpiadi» aggiungo, a mo’ di spiegazione. «Ah, e poi c’è stato il periodo in cui ero molto stressata per gli esami di maturità e, a quanto pare, vagavo per le stanze recitando ad alta voce la Medea di Euripide.»
«In… greco?» mi domanda, un po’ spaventato.
«Così dicono» confermo. «Comunque non è servito a un cazzo, a giudicare da come sono andata male agli orali. Probabilmente ho dato tutto quella notte e nel cervello non è rimasto più nulla» rifletto ad alta voce, più parlando con me stessa che con lui.
Mi fissa interdetto, prima di scandire lentamente le parole. «Ma tu… quanto cazzo parli.»
Non ha molto l’aria di essere una domanda, è piuttosto una constatazione, e io non posso fare altro che annuire con un sorriso tirato in volto.
La mia serata è stata uno schifo, ma è stata soltanto colpa mia, della mia stupidità e della mia bramosia di gin tonic, quindi tecnicamente me lo merito. Ma lui… lui si è solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Voleva fumarsi una sigaretta in pace, tutto bello e maledetto appoggiato al muretto, e invece si è ritrovato una ragazza ubriaca e logorroica che non solo gli ha quasi vomitato sulla giacchettina in pelle profumata, ma si è pure fatta scarrozzare a casa sbavandogli sui sedili.
«Già, sono una frana nel rapportarmi la prima volta con qualcuno che non conosco» annuncio tristemente. Sto per aggiungere che autodefinirsi frana non va più di moda dagli anni Novanta, ma per qualche strana congettura astrale riesco a mordermi la lingua e ad allungarmi verso la portiera. «I silenzi imbarazzanti mi terrorizzano.»
«Silenzi imbarazzanti?» Scoppia in una risata. «Con te? Ti conosco da dieci minuti e non ho mai sentito così tante parole in fila una dietro l’altra.»
Lo guardo di traverso. «Be’, mio caro, ringrazia la mia politica verso gli sconosciuti: se non fosse per me, noi due non staremmo neppure avendo un dialogo.»
«Se non fosse per me, mia cara, tu saresti da sola e sotto la pioggia a dieci chilometri da qui» dichiara lui, divertito.
Colpita e affondata.
«Evvabene, simpaticone» sussurro mestamente. Mi sporgo ancora verso la maniglia e faccio per congedarmi: «Ti ringrazio molto per tutto, sai, la sigaretta con cui quasi prendevo fuoco, la vomitata sostenuta dalle tue braccia forti…»
«Ma tu ti senti quando parli?»
«… il passaggio a casa…» continuo io, indifferente, preparandomi a scendere sotto la pioggia.
Ormai la mia lingua non ha un freno e mi rendo conto che davanti a questo tizio non c’è più niente da nascondere: sto parlando a ruota libera da quando lo conosco e non ho più una benché minima parvenza di dignità da preservare.
«Ehi, bloccati un secondo.» Il ragazzo si allunga verso di me, appoggiandomi una mano sulla spalla nuda.
Nuda? Nuda… perché sono nuda? Me ne rendo conto solo in questo momento. La mia maglietta a maniche corte è completamente scivolata su un lato, lasciando scoperta un’ampia porzione di clavicola e la spalla sinistra. Lui mi poggia la mano proprio lì, calda sulla mia pelle ancora bagnata di pioggia.
Come se mi fossi improvvisamente ridestata, sposto la spalla verso il basso, incapace di sostenere quel peso, mentre lui la toglie subito con uno scatto, come se si fosse bruciato, quasi il gesto appena compiuto fosse differente rispetto a quello che aveva in mente. Vedo un’ombra di scusa nei suoi occhi e lo fisso tranquilla mentre mi risistemo la maglietta, in modo da coprirmi entrambe le spalle.
I suoi occhi scuri si muovono lentamente su di me.
«Mentre dormivi hai effettivamente parlato…» continua, senza staccare gli occhi dalla mia maglietta bianca. Finalmente alza lo sguardo e lo posa sul mio, che lo ricambia interrogativo. «Fammi vedere quel posto in cui non hai i tatuaggi… mi hai praticamente implorato!»
Sgrano gli occhi, mettendomi una mano sulla bocca. «Ma… ma che cazzo dici…»
Annuisce con vigore. «Te lo giuro: avevi gli occhi chiusi ma stavi proprio parlando con me. Continuavi a ripetermi di togliermi i pantaloni.»
Non riesco a muovermi di un millimetro. È vero, lui è oggettivamente bellino, anche così, un po’ in penombra in stile vedo-non vedo. Ed è effettivamente da me diventare molto ciarliera da ubriaca, così come potrebbe effettivamente essere successo di pensare a questo tizio mezzo nudo e ricoperto solo dei suoi tatuaggi, ma addirittura arrivare alle molestie sessuali… questo, ecco, questo potrebbe essere un tantino esagerato anche per la sottoscritta.
«Dunque, che si fa?»
Vedo il suo sorrisetto brillare nella penombra.
«Che si fa in che senso?» balbetto, con le mani ancora immobili davanti alla bocca.
Sul suo volto si apre un sorriso molto grande e davvero molto sornione. «Me li tolgo io i pantaloni o me li togli tu?»
Lo fulmino con lo sguardo. «Ah-ah. Davvero esilarante.»
«Non puoi illudermi così… io ti ho letteralmente strappata dalla strada, ti ho portata sana e salva a casa, potresti dimostrarmi un minimo di riconoscenza.»
«Di sicuro» borbotto nervosa, agitandomi sul sedile. Colgo dell’ironia nel tono della sua voce, ma non potrei giurarci. «Passa domani e ti offro il caffè, okay?» Gli indico il Borgo Antico, dall’altra parte della strada, rendendo chiara la mia intenzione di allontanarmi il più velocemente possibile dalla sua auto.
«Tu lavori lì?» mi domanda stupito, voltandosi a fissare il punto che gli ho indicato. «Pensavo studiassi latino, o quelle cazzate lì…»
«Studio anche latino. Oltre al lavoro. E per la cronaca, quelle cazzate lì…»
«Occazzo, ora riparte con la filippica su Roma che ci ha dato i natali» mi interrompe, ridendo. «Mi piaci di più quando stai zitta.» Fa schioccare la lingua e riprende a guardarmi la maglietta.
Stringo gli occhi a due fessure e, mentre tento di coprirmi come posso dal suo sguardo ostinato, con voce dura gli rispondo: «Anche tu mi piaci di più quando stai zitto.»
«Allora toglimi i pantaloni mentre sto in silenzio» mi fa, imitando la mia voce e stringendo gli occhi come ho fatto io.
«Ma piantala» mormoro imbarazzata, distogliendo immediatamente lo sguardo dal suo e chinandomi a raccogliere la borsa che ho appoggiato tra i piedi.
Lui, nel frattempo, scoppia a ridere. Sta per aggiungere qualcos’altro quando sento un cellulare squillare.
Con la coda dell’occhio, lo vedo irrigidirsi mentre muove il dito sullo schermo.
«Cosa è successo? È tardissimo» chiede con voce atona all’interlocutore. Aspetta un secondo in silenzio, fissando la strada davanti a sé con sguardo vuoto, una mano che tocca nervosamente il volante. «No. Niente di importante. Arrivo subito.»
Mi rendo conto che quella è una telefonata privata, e lui ha immediatamente cambiato espressione, divertita fino a qualche attimo prima. Mi sento davvero di troppo e siamo fermi in mezzo alla strada da molto tempo, con le quattro frecce che lampeggiano a intermittenza. Mi avvicino lentamente e gli tocco una spalla, e quando lui si volta a guardarmi, col cellulare ancora attaccato all’orecchio, lo vedo per la prima volta da vicino.
La sua pelle è liscia e olivastra, la forma del viso regolare e nei suoi occhi scuri, così da vicino, si intravedono delle piccole pagliuzze ambrate che quasi stonano con il resto del viso, altrimenti completamente buio. I capelli bagnati sono nerissimi, così come le sopracciglia, non troppo folte ma neanche particolarmente curate. Quando si volta verso di me di scatto, ricordandosi della mia presenza al suo fianco, i suoi occhi guizzano velocemente sulla mia mano che è ferma sulla sua spalla, e io mi affretto a toglierla. Ma è solo un attimo, le pagliuzze tornano a guardarmi dritte negli occhi, e io mi sento completamente e incomprensibilmente scoperta, anche se la mia maglietta ora è al posto giusto – forse solo un po’ più bagnata e trasparente di come dovrebbe essere.
Mi sento quasi intimorita dalla sua bellezza, come se non fossi degna di trovarmi così vicino a quel viso. Questa consapevolezza e il fatto di essere stata appena descritta al suo interlocutore come qualcosa di poco importante mi costringono a dire più in fretta di quanto vorrei un Grazie con le labbra, senza emettere alcun suono.
E senza aspettare risposta, in un attimo mi riverso fuori dall’auto, cominciando a correre sotto la pioggia, cercando di ripararmi alla bell’e meglio con la mia borsa.
Bell’e meglio… altro termine, peraltro, in disuso sin dagli anni Novanta, forse addirittura mai stato veramente in uso.
L’impatto con l’acqua mi fa rabbrividire e, mentre tento scoordinatamente di evitare le pozzanghere, facendo dei balzi a destra e a sinistra, e penso a quanto sia il caso di terminare questa serata il prima possibile buttandomi a letto, sento una macchina che mi affianca. Il finestrino è abbassato, il guidatore procede lentamente tenendo il mio passo.
«Ehi, Cenerentola pervertita… pensi che il tuo debito sia estinto semplicemente perché sei corsa via?» mi chiede.
«Smettila!» urlo irritata di rimando, continuando a mantenere il passo sotto la pioggia scrosciante.
«Per ora mi a accontento di un caffè» mi risponde con voce divertita.
«Te lo fai bastare per ora e per sempre!» replico, sempre più irritata.
Questo tizio ha la capacità di innervosirmi in una maniera inaudita, e mi parla come, in ventidue anni di vita, non si è mai azzardato a parlarmi nessuno.
«Non ti agitare. Arriverà il momento in cui mi supplicherai di nuovo di togliermi i pantaloni» lo sento dire con un sorriso beffardo. «E ti assicuro che a quel punto sarai totalmente consenziente!»
Mi blocco, non sento più il freddo né la pioggia che martella sul mio corpo scoperto, e vedo che anche la macchina si arresta, a qualche metro da me. Mi avvicino come una furia, con due falcate veloci, mentre la rabbia mi scalda le guance. Mi chino quanto basta per guardarlo negli occhi: «Ma tu, esattamente, chi stracazzo ti credi di essere?»
Lui mi fissa con un sorrisetto stampato in faccia, mentre con un gesto della mano si mette a posto i capelli.
Vacillo un istante: ogni volta che mi concentro sul suo viso, quelle pagliuzze sul fondo degli occhi neri mi incatenano con così tanta forza al suo sguardo da farmi dimenticare il motivo per cui provo antipatia istintiva verso questo tizio. Tutta la rabbia e il coraggio che da sempre mi contraddistinguono, così come la lingua lunga, la sfuriata facile, la battuta sempre pronta mi muoiono in gola non appena il suo sguardo arrogante e sarcastico punta nel mio.
Non credo lui si renda conto del mio cedimento interiore. Mi impongo di non abbassare lo sguardo, nonostante sia seriamente tentata di farlo mentre i secondi passano e lui non risponde alla mia domanda.
Piazzo le mani sul tettuccio della macchina, un po’ teatralmente, con tutta la forza che ho, cercando di fare il più possibile rumore. «Allora?» lo incalzo, sempre più imbufalita dalla sua sfacciataggine. «Ti rendo noto che le tue sono in tutto e per tutto catalogabili come molestie verbali!»
Lo vedo mantenere il sorrisetto e sporgersi verso di me. «Ti ricordo, piccola Cenerentola pervertita, che in macchina hai iniziato tu con le molestie… sessuali, però. Che cosa reputi più grave?»
Socchiudo gli occhi. Devo ancora capire se tutta questa storia che lui si ostina a propinarmi sia accaduta realmente o se si tratta soltanto di una bugia, quindi non mi fido a replicare e decido di cambiare argomento, sbottando: «Piantala di chiamarmi pervertita!»
Scoppia ancora una volta a ridere, mentre io sono costretta a togliere le mani dal tettuccio perché vedo che lui sta alzando il finestrino automatico. Lo guardo truce, facendo un passo indietro. Quando il finestrino è quasi completamente chiuso, sento la sua voce, ancora divertita: «A domani, Sbocchina!»
La macchina riparte e io rimango immobile, sotto la pioggia, completamente bagnata e con le guance ancora rosse di rabbia.