CAPITOLO 1 – TE LO RACCONTO?
Hanno recentemente scoperto che la dichiarazione medica secondo cui una donna su tre non riesca a restare incinta superati i trentaquattro anni deriva da statistiche condotte sulle nascite tra la fine del 1600 e l’inizio del 1800. Quando, insomma, non esistevano antibiotici, trattamenti specifici e la trilogia di Cinquanta Sfumature.
Altamente fuorviante.
Mi innamorai perdutamente a un veglione di Capodanno. Toccava al 2009 lasciare il nido e volare sulle nostre teste alcolizzate, mentre le note di Disco Samba infiammavano i bacini e lui tentava di togliersi dalla scarpa un chewing-gum alla vodka, appoggiandosi alla parete del corridoio. Quel Capodanno a casa di Chiara fu il primo caso ufficiale non documentato di coworking festaiolo, dal momento che tutti i sette piani del palazzo campavano dalle nove con un buffet a base di pizzette e ventiquattro bottiglie di superalcolici in condivisione.
Decisamente superato.
Rebecca. Sagittario. Estremamente creativa. Trentadue anni. Aperta e allegra, leggermente disordinata e incline a baruffe sentimentali, di cui comunque si pente, dimostrando di chiudere cerchi con puntuali esami di coscienza.
Perfetto. No. Forse baruffa significa scazzottata e non sono sicura di fare scazzottate sentimentali. Di solito propendo per le sconfitte a tavolino. Sarebbe meglio esprimere i concetti in modo pulito e poco fraintendibile, con parole che vadano dritte al punto, invece di perdersi in mille sbavature. Le sbavature fanno sentire puzza di magagna. Ma io sono una comunicatrice, per cui mi risulta abbastanza spontaneo abbellire la confezione. Un serial killer io lo descrivo come un professionista del settore para funerario.
Devo assolutamente riuscire a buttare fuori tutto il mio disordine mentale, capire come e dove ho sbagliato. Con chi, soprattutto. Poi devo solo disciplinarlo, metabolizzarlo e morire, finalmente, in santa pace.
«Aperitivo?» Elena piomba nella nostra stanza e io sfregio il foglio per lo spavento. Lo sapevo che dovevo usare il computer, ma è rimasto nel mio ex posto di lavoro insieme al mio cuore, al mio futuro e al mio minicactus.
«No Elena, no.» Incrocio le braccia per comunicare la perentoria presa di posizione.
«Allora resta qui a fare la lagna tutto il giorno, come ieri, l’altro ieri e l’altro l’altro i…»
«Ho afferrato, grazie. E non faccio la lagna. Ho deciso di scrivere la mia storia per capire cos’ho sbagliato.»
«Non fai prima a voce, scusa?»
«Cosa vuol dire a voce?»
«Che ce lo racconti mentre facciamo l’aperitivo.»
«No. Ieri l’aperitivo è diventato una caccia al boccino della squadra del Grifondoro.»
Ho un problema di assimilazione del Martini. O forse delle olive. Comunque sia, 100 punti ai Serpeverde.
«Allora noi beviamo e tu ci racconti. Basta che tu la smetta di fare la lagna.» E mi indica la porta con un eloquente gesto della mano (il dito medio alzato).
La seguo in cucina, sbuffando e trascinando le infradito, e mi siedo al tavolo imbandito da quattro bicchieri mezzi pieni e da una bottiglia di Martini mezza vuota. Vivo con dei recidivi. Gabriele e Sebastiano ne spingono uno verso di me.
«Ragazzi no, lei non beve. Ci racconta tutto daccapo.» Anche Elena si accomoda su una delle sedie. «Fai veloce, alle nove devo andare via.»
«Ancora?!» sbotta Gabriele, ma viene subito fulminato dallo sguardo assassino di Elena. «Intendo, sicura che ti faccia bene…» Altra occhiataccia. «Volevo dire che ti ascoltiamo.» E afferra il braccio di Sebastiano, che si stava alzando, per guardarmi in paziente attesa.
Prima di iniziare sarebbe bene chiarire alcune cose.
Punto primo: non ho mai raccontato la storia dal principio, casomai colmato le lacune narrative tra un rientro a casa e l’altro, dettaglio che rende il non troppo latente desiderio di fuga dei miei coinquilini qualcosa di totalmente ingiustificato.
Punto secondo: non si tratta di una storia a lieto fine, ma di un dramma romantico a tinte vagamente horror.
Punto terzo: non devo aggiungere altro, ma mi pare di aver sentito dire che tre sia il numero perfetto.
CAPITOLO 2 – BREVI CENNI STORICI
Sono sempre stata un’allegra ragazza, credente e praticante della filosofia vivi e lascia vivere, dotata di tratti e colori che potevano collocarsi in quella via di mezzo rassicurante e veritiera: naso né grande né piccolo, bocca né fine né carnosa, occhi dal democratico color verde marrone e, ciliegina sulla torta di un aspetto non esattamente particolare, capelli castani, che ho iniziato a tingere precocemente grazie a una cieca fiducia nei progressi della decolorazione.
Armata di un incrollabile ottimismo, di una laurea in Scienze della Comunicazione e di una specializzazione in scrittura creativa, finiti gli studi iniziai ad accumulare stage in maniera inversamente proporzionale ai fidanzati, finendo per passare tutte le mie serate nell’unico ambiente lavorativo che mi aveva assunto senza bisogno di futili periodi di prova: la pizzeria da asporto Bella Napoli.
Malgrado non fosse esattamente il mio settore, farcire le pizze mi gratificava più degli ultimi ragazzi con cui ero uscita. Perché una pizza non ti giudica né si fa restituire – causa crisi – la borsa di Louis Vuitton regalata a Natale, e ti offre una cena completa dal punto di vista nutrizionale senza aspettarsi nulla in cambio.
Fu in quel periodo che mi resi conto che la parola crisi faceva capolino nella maggior parte delle conversazioni che intrattenevo con gli umani (preferivo di gran lunga parlare con i carboidrati). E, a causa della stessa, persi i pochi lavoretti diurni che avevo faticosamente scovato, compreso quello in una nuova agenzia di comunicazione che puntava a un linguaggio stiloso e sofisticato, che… no, scusate. La causa della chiusura di quell’agenzia, appena sei mesi dopo l’apertura, fu la comunicazione talmente stilosa e sofisticata da non essere compresa da nessuno. Decisi di reagire tingendomi i capelli di nero depressione profonda.
E le acque si bagnarono di sangue. Arrivarono le locuste, nacquero Amazon e le grandi catene low cost. Le apericene divennero le nuove cene, le trasmissioni di Barbara D’Urso riuscirono a fare peggio di quelle di Maria de Filippi, i ristoranti giapponesi all you can eat e le pizzerie da asporto fagocitarono tutto il resto.
Ogni mattina, dopo il primo sbadiglio mi ripetevo: Se la vita ti regala limoni, fatti una limonata. E poi andavo incontro all’ennesima giornata di… limone. Tuttavia, proprio nel momento in cui mi ero convinta che sarei morta single e sudata, incatenata al forno a farcire pizze, la mia vita prese una svolta inaspettata.
Venni assunta da un’altra agenzia di comunicazione. Una di quelle vere, guidata dal miglior capo che si possa mai desiderare: sano di mente e di principi, onesto e indefesso lavoratore, uno che nel settore ci bazzicava dai tempi pre-social e che sapeva cosa fossero gli attrezzi del mestiere e una strategia comunicativa seria ed efficace. Taglio questa parte e vado direttamente al sodo: io che fuggo dal settore della ristorazione per diventare il braccio destro del buon signor Mordini. Anzi, il cervello, dal momento che idee e testi di qualsiasi cosa andasse trasformata in prodotto da comunicazione nascevano dalla sottoscritta, la copy.
Ormai trentenne, riuscii a lasciare il paesello e casa dei miei per approdare nella grande provincia e iniziare a camminare con le mie gambe. Anche mio nonno mi diede la sua benedizione, e ben cinquanta euro di mancia. Praticamente mollai una villa nel verde per dividere un buco di appartamento aromatizzato alla muffa con una spogliarellista dalla sessualità fluida, Elena, e due iscritti alla facoltà di Medicina, Gabriele e Sebastiano, che ogni volta che mi incrociavano pensavano alla vivisezione del cervello umano. Non l’avrebbero mai confessato, ma si capiva benissimo.
«Ma noi due?» obietta Gabriele. «Non è assolutamente vero.» Si rivolge a Sebastiano, che abbassa lo sguardo colpevole.
Lo sapevo. Lo sapevo!
«Posso continuare? Sebastiano, vi perdono.»
«Vai…»
Le due camere erano occupate dalle coppie Gabriele-Sebastiano e Rebecca-Tanga di Elena, perché lei lavorava di notte e tornava a casa quando noi stavamo finendo la colazione. Ogni sera mi chiudevo a chiave in camera per paura di trovarmi quei due deficienti a fissarmi la calotta cranica con un bisturi in mano. Sì, di tutte le cose che avrebbero potuto fissare, avrebbero di sicuro scelto la calotta cranica.
Gabriele e Sebastiano aprono la bocca per dire qualcosa.
«Tacete. Non mi interrompete» minaccio.
Avevamo un solo bagno e una sala-barra-cucina le cui prese di corrente friggevano a ogni temporale. Però c’era anche il biliardino. Vuoi lamentarti con la crisi che c’era? Figurarsi.
Ogni giorno mi recavo in agenzia per svolgere il lavoro più bello del mondo, con il capo più buono del mondo, nel luogo più caratteristico del mondo. L’agenzia, infatti, occupava il sesto piano di un palazzo del centro storico, infilato tra piani di avvocati, giudici, dentisti, chirurghi estetici, architetti. Insomma, eravamo un sandwich di nobile e pulsante attività.
La crisi, tuttavia, non mi aveva dimenticato. Anzi, riuscì a trovare per prima cosa l’indirizzo dell’agenzia – quando Mordini chiarì che il momentaneo abbassamento di stipendio sarebbe servito a rimpolpare l’organico con un montatore di video 3D e un commerciale – e poi quello di casa – in una notte buia e tempestosa, che fece saltare gli elettrodomestici attaccati alle prese della corrente (ovvero tutti) come miniciccioli a Carnevale.
Maledetta crisi.
«Ma quale crisi?» era intervenuta Elena, un giorno. «Io sono piena di soldi, e posso fare di te una star se la smetti con questi lavori del cazzo.»
Elena, la spogliarellista fluida, voleva offrirmi un lavoro. Non so se salta all’orecchio, ma a lei piaceva alternare gruppi più o meno nutriti di parole a parolacce. A volte non sentivi una parolaccia per un intero minuto, a volte parlava solo per cacofoniche poesie di sconcezze.
«Ma che cazzo dici?» sbotta Elena.
E due.
«Hai appena detto cazzo» le faccio notare. Mentre nega, sparando falli a destra e a manca, bevo un sorso d’acqua per idratare la gola.
È il Martini. Che palle.
«Ti ho forse descritta con dice un sacco di idiozie? No, non mi pare, quindi lasciatemi continuare, per favore.»
«Vai…»
La conversazione risale alla sera in cui decretammo la morte violenta di frigorifero, forno, microonde, frullatore, phon, piastra per capelli, spazzolini elettrici, stereo anni ‘90 e televisore e ci confrontammo per capire quale elettrodomestico andasse rimpiazzato prima degli altri. Ovviamente dopo aver rimesso al mondo quel buco nero che ci avevano spacciato per impianto elettrico.
Sì, ci dovevamo confrontare, perché se per me era evidente che il frigorifero andasse ricomprato all’istante, per gli altri non lo era altrettanto, e nell’aria galleggiava una desolante confusione sui massimi sistemi domestici. Elena disse che sarebbe andata a comprare phon e piastra per capelli prima di rincasare, perché io non mangio mai, ma mi pettino, al contrario di voi tre cessi. Gabriele si impose per il microonde, perché mangiava solo cibi surgelati, e Sebastiano lo sostenne, ovviamente, lodandone la pragmatica intelligenza.
Dopo aver fatto capire ai due geni che i cibi surgelati non potevano rimanere tali senza frigorifero e freezer, decidemmo di fare in primo luogo una colletta per il frigo e poi per il microonde, che avremmo rinunciato al forno tradizionale e che ci saremmo fatti invitare a casa di amici in caso di trasmissioni televisive particolarmente pregne di significato. Grazie ai nostri smartphone, ci collegavamo a Netflix e ascoltavamo musica su YouTube, e poco importava che perdessimo diottrie a mazzi per seguire mezza puntata di una serie. In tempi di crisi, quando ti bruciano gli occhi, passi al biliardino senza troppe lamentele. Elena, infine, si sarebbe comprata piastra e phon per i fatti suoi. Preso poi atto del costo astronomico di un nuovo impianto elettrico, decidemmo anche, senza bisogno di ulteriori confronti, che avremmo mantenuto quello, ma staccato ogni nuovo elettrodomestico alla prima goccia di pioggia.
Rimaste sole, Elena tornò all’attacco con la storia del lavoro.
«Non avrai mica studiato danza classica, cazzo?»
«Sì, ho studiato danza classica per ben cinque mesi quando andavo alle elementari e ho imparato il significato della parola fallimento.»
La prima frase, chiaramente, era stata pronunciata da lei. La seconda, altrettanto chiaramente, da me.
«Per quello che devi fare, basta e avanza. Praticamente c’è un palo, e tu ci balli attorno. Sei in mutande e reggiseno, e non farmi la verginella che è come al mare.»
«Al mare non ci sono i pali.»
«Cretina, intendevo per il costume. Ma che cazzo vuoi? Ti pagano bene, nessuno ti tocca con un dito, le stagiste inizian…»
«Cos’hai detto? Le stagiste? Certo! Adesso lo stage te lo becchi anche al night club, mi sembra giusto. Il mondo fa ufficialmente schifo.»
«Hai rotto i coglioni.» Buttò sul tavolo i duecento euro di acconto per il frigorifero mentre io cercavo di raggranellare dal fondo del portafoglio qualche moneta da un euro. C’erano solo gettoni per i carrelli del supermercato.
«Oh, guarda che al night club i posti vanno via come il pane. Ti conviene pensarci su molto bene, cazzo. E smettila di mungere quel portafogli, che non produce soldi.» Girò i tacchi verso l’uscita, lamentandosi di quanto i ritardi non fossero ben tollerati nel suo ambiente di lavoro.
Smisi di cercare un doppio fondo che poteva essermi sfuggito e restai a fissare i suoi soldi sul tavolo, pensando a La casa di carta, ai pali, alle pizze e ai calciatori, accompagnata dalla melodia di rumori molesti prodotta dai due aspiranti dottori al biliardino.
Inutile negare che ci stavo pensando.
E mi vergognavo come una ladra.
Fortunatamente, durante la notte il buon senso decise di fare le pulizie nel mio cervello, cestinando le idee altamente indecorose e lasciandone una dal raro candore: tornare alla pizzeria Bella Napoli a richiedere un altro lavoretto serale. Come avevo potuto anche solo pensare di lavorare in un night club?
«Ma che dici?» Gabriele mi guarda con un sopracciglio alzato. «Tu sei diventata una spogliarellista.»
«Bravo! Hai spoilerato! Non si spoilera mai, per nessun motivo al mondo» gli urla contro Sebastiano.
Che vita di merda.
«Ragazzi, ragazzi. È uno spoiler solo se qualcuno dei presenti non sa cosa succede dopo. Ma noi lo sappiamo»puntualizzo paziente.
Lo sapevo che dovevo starmene in camera mia, a scrivere cose insensate sul mio foglio sfregiato.
«Sì, intendevo dire che…»
«Allora? Devo andare a lavorare! Ci svegliamo? E tu non fingere di averci messo un giorno a capire che ti conveniva fare la spogliarellista invece della pizzaiola, per piacere» sbotta Elena.
«Mai sentito parlare di licenza poetica?»
«No.»
«Posso continuare?»
«Vai…»
L’idea era effettivamente brillante, ma quando tornai a chiedere un lavoro a Carmine, non potei fare a meno di notare che lo staff era composto per il novantotto percento da ventenni. Probabilmente laureande convinte di aver trovato un lavoretto di cui dimenticarsi molto presto, una volta salpate per la terra degli adulti. Presi un calzone farcito e me ne andai col naso che pizzicava, ma soprattutto con gli attributi che giravano. Del resto, io nel mondo dei grandi ci ero entrata, e iniziai a convincermi che ci fosse una sorta di equilibrio cosmico che pretendesse da me uno sforzo maggiore per ripagarlo di aver ottenuto il lavoro dei miei sogni in agenzia.
In fondo, chi lo avrebbe saputo, a parte Elena? Chi mai avrei potuto incontrare in un night club? Ma, soprattutto, chi mi avrebbe guardata in faccia?
E poi, giurai solennemente sui carciofi, sarebbe stato solo per un mese. Il tempo necessario a rimettermi economicamente in carreggiata e tornare alla comunicazione diurna.
CAPITOLO 3 – COLPO DI SCEMA
Nonostante la raccomandazione di Elena, dovetti comunque sostenere un colloquio con il titolare, tale Vladimir Zapovskij, un uomo che non passava inosservato causa volumetria, paragonabile a quella di un armadio con le ante aperte. Poi ci si accorgeva anche dei capelli biondi, delle camicie sbottonate e dei modi gentili. Ma poi poi.
Mi fece strada fino al bancone del locale, dichiarando che la mia assunzione era ormai cosa fatta e che potevamo permetterci di parlarne in modo molto meno formale di come si sarebbe convenuto. O meglio, questa fu la mia personale traduzione della sua frase: Tu amica di nostra grande amica, ah? E allora tu nostra amica. Noi allora bagnare con vodka nostro patto solenne, per rendere inizio di tua carriera fortunata. Noi si fa così qui, ah?.
Mi accomodai su uno degli sgabelli pensando che i pali che decoravano le varie zone del locale fossero semplici travi portanti. Architettura di base.
«Allora» disse, armato di una bottiglia di vodka liscia. «Tu bere, sì? Noi vende vodka migliore del mondo, provare per credere.»
Mi allungò un bicchiere di vodka e mi guardò con un sorriso carico d’attesa. Portai il bicchiere alla bocca facendomi coraggio.
«Buo-buona.» Dissi mentalmente addio alle mie mucose gastriche. «Bella forte. Credo sia molto adatta a curare certe malattie infettive, no?»
Si batté un pugno sul petto e annuì orgoglioso.
«Tu ragione da vendere. Ma io no posso vendere ragione, allora vendere vodka.»
Un filosofo.
«Allora. Tu lavora qui o in altra sede?»
«Eh? No, no, vorrei lavorare qui se possibile. Magari come barista… magari verso la vodka e poi spiego come usarla a scopo medico.»
«No, ragazze al bancone tutte in stage. Tu passa direttamente al palo. Mi serve nuova ragazza.» E si allontanò quel tanto che bastava a farmi entrare nel suo campo visivo tutta intera.
Deglutii rumorosamente. Lo sapevo che quel momento sarebbe arrivato. Presi il bicchiere di vodka e lo svuotai in un solo sorso.
«Mmh…»
«Ci tengo a dire che faccio molti massaggi anticellulite, non si fa mai abbastanza per mantenersi belle. Ho fatto danza… Danza classica. Sì, insomma, quando ero più giovane. E corro, corro almeno quattro volte alla settimana. Io e il mio capo andiamo anche a piedi da alcuni clienti, quando sono in zona. E non fumo.»
«Sì, sì. Elena mi ha detto tu bel fisico. Io fidare di nostra Elena, lei fiuto per queste cose.»
Quasi piansi per il sollievo.
«E regola di casa dice guardare, ma no toccare. Tu balla tranquilla e beata. Nessuno tocca. Solo guarda e beve vodka.»
Certo.
Che meravigliosa notizia.
Da quella stessa sera vendetti l’anima a Vladimir, proprietario russo di una catena di night club da far impallidire Fratelli Labufala, e iniziai a danzare mezza ignuda attorno a un palo. Confessarlo mi crea ancora oggi del disagio.
La mia prima sera ballai sbronza di vodka e per poco non feci la fine di Lollipop, la ragazza di cui avevo preso il posto e che si era fracassata l’anca caracollando dal palo, perché, su consiglio di Vladimir tu bagna con vodka primo giorno di nostro patto solenne. Ne ingollai così tanta da vederne due, di pali. Il mio nuovo mantra divenne sono una ballerina di danza classica, e lo ripetei con una frequenza tale che le mie esilaranti nuove colleghe mi procurarono scarpette da ballerina e un sexy body rosa con sexy tutù – sexy sta per completamente trasparente – che io indossavo sopra un completo di pizzo bianco.
Dopo una breve contrattazione con il buon Vladimir, ottenni un turno di cinque ore serali estremamente flessibile, che mi permetteva, miscelando sapientemente vodka e ginseng, di mantenere il mio vero lavoro. Ottenni anche il permesso di tenermi addosso il body nei giorni feriali e mostrare la balconata solo il sabato, che divenne il giorno dedicato al coma etilico a causa dei bagni di vodka che Vladimir riteneva fondamentali a eliminare quelle cose che noi umani chiamiamo vergogna e senso del pudore.
Mi alzavo alle otto del mattino e facevo colazione in doccia, per guadagnare tempo. Alle nove planavo al lavoro e staccavo alle sette di sera, per poi partire per il Russian Dream, dove mi facevo un solido aperitivo a base di vodka e olive e mi preparavo per attaccare il turno alle otto.
All’una di notte mi struccavo, mi mettevo il pigiama direttamente al night, piangevo per tutto il tragitto in auto e mi tuffavo di testa nel letto. Inizialmente vomitavo anche i superalcolici, poi capii che dovevo concentrarmi sui soldi che gli uomini mi infilavano nelle pieghe del tulle e non sui loro sguardi assatanati. Così smisi di correggere infrasettimanalmente le bottigliette da mezzo litro di acqua col gin (giusto per variare). Fu indubbiamente un bene per il mio fegato.
Piangevo anche meno.
A volte.
Nonostante i miei sforzi logistici, comunque, le mie occhiaie brillavano di un colore che Elena definì zoccoviola.
Ah. Il mio nome d’arte divenne La Ballerina.
«Tu non me la racconti giusta», disse una mattina Stefania, la centralinista del palazzo con la mania degli orecchini extralarge. Scuoteva il capo e faceva traballare le farfalle argento che stava spacciando per orecchini. Erano a grandezza naturale.
«Eh?» Probabilmente mi ero addormentata aspettando l’ascensore. Di nuovo.
«Sì, tu. Perché sei sempre così stanca?» E mi scrutò, cercando di trovare il bandolo della matassa. «Ti sei messa con uno dei tuoi coinquilini, confessa! O con tutti e due!»
Fortunatamente per me, non ne azzeccava mezza.
«I miei coinquilini hanno dieci anni in meno di me e vogliono uccidermi» le dissi di rimando, e la chiusura delle porte dell’ascensore pose fine all’arguta comunicazione per quel giorno.
Durante le prime due settimane del mio doppio lavoro, quando non mi appisolavo contro i muri, non mi lagnavo per il mal di braccia da lap dancer o non piangevo, venivo assalita da un tremendo sospetto: ero convinta che ogni uomo che incrociassi fuori dall’ufficio sapesse cosa combinavo dopo le otto di sera. Quindi iniziai a camminare guardandomi i piedi, tamponando tutte le persone che non riuscivano a schivarmi per tempo e gli animali di piccola e media taglia. La domenica smisi di andare a pranzo dai miei genitori perché non sapevo come spiegare la mia pennica pomeridiana di cinque ore filate o la mia fronte fosforescente a causa dei continui tamponamenti di pali della luce.
«Non devi dormire adesso. Dormirai quando sei morta» proferì il nonno, portandomi una tazza di caffè fumante.
«Ah. Ottimo consiglio. Cercherò di ascoltarti, grazie.»
«Stai lavorando tanto?»
Sentivo uno strano dolore alla bocca dello stomaco. Senso di colpa o ulcera fulminante?
«Sai come siamo noi gente di comunicazione. Sempre alla ricerca dell’idea geniale… anche di notte…»
«Non lo so come siete voialtri, io facevo il falegname. Ma vedo che la voglia di lavorare l’hai presa dal nonno. Bravissima.»
Assurdo, vero? No.
La cosa più assurda accadde qualche giorno dopo e fu l’infarto che quasi uccise il mio adorato capo, costringendolo a passare le redini dell’agenzia al figlio trentottenne, Andrea Mordini. Impiegai due giorni per capire che non mi ero immaginata tutto a causa del poco sonno o della troppa vodka. Si era sentito male rincasando da una cena tra amici ed era stata la moglie a salvarlo, chiamando i soccorsi appena in tempo per trascinarlo a ritroso nel mondo dei vivi.
Mordini senior era in un letto a impuntarsi che presto sarebbe tornato, mentre il figlio, strappato a una carriera in banca, prendeva possesso del suo ufficio buttando a terra ogni singolo foglio. Se state pensando che il giovane Mordini sia il principe azzurro della storia, colui che interviene per lenire la magagna economica della protagonista e portarla all’apice dell’estasi amorosa, vi dico di no.
Andrea Mordini era l’orco.
Il lupo cattivo.
Lo stronzo.
Ma pure un incantesimo letale alla Malefica.
Nato con un paio di glaciali occhi azzurri e una bruna chioma boccoluta che nemmeno il gel riusciva a disciplinare (il fastidio provocato dal fallimento del prodotto glielo si poteva leggere in faccia), si presentò in ufficio, il suo primo giorno, con un impeccabile completo blu scuro e camicia bianca. Senza cravatta, senza simpatia e con un duro, lunghissimo palo ficcato nell’ombrosa zona posteriore. Per dirla alla Elena: equilibrio cosmico un cazzo. Nemmeno lei avrebbe saputo cosa farci, con quel palo.
«No, scusa, qualcosina mi sarebbe venuta in mente», borbotta Elena, masticando un’oliva.
«Io torno a scrivere…»
«No, no, no. Va bene, stiamo zitti.»
«Stiamo?» si lamenta Gabriele.
«Allora?»
«Vai…»
Lo conoscemmo tutti tre giorni dopo la tragedia, annunciato da un delirante messaggio vocale del signor Mordini stesso, durante il quale lui urlava che sarebbe rientrato a breve e la signora Mordini che se l’avesse fatto sarebbe morto e che pretendeva il divorzio prima di rimanere vedova. In alcuni momenti si sentiva un’infermiera richiedere un volume di voce consono all’ambiente.
Da quel primo incontro fu cristallino che il profumo di gioia, simpatia, spensieratezza e prese della corrente in ottimo stato che caratterizzava l’agenzia sarebbe stato sostituito dalla nuvola di Fantozzi, che quel riccio ominide si portava appresso insieme al palo. Per l’occasione si imbucò in ufficio anche Stefania, fasciata in un vestito color lavanda e orecchini ad anello di dimensioni illegali, che lo Snob ghiacciò con uno sguardo che avremmo imparato a conoscere molto bene.
Dopo aver mal pronunciato poche parole di circostanza, mi fece segno di seguirlo nel suo ufficio. Mentre giuravo di restare fedele al mio vero capo, mi accorsi che Stefania mi stava venendo dietro. La pregai di tornare a svolgere il suo lavoro, cosa che fece non prima di avermi strappato una ciocca di capelli con il gancio di uno dei suoi cazzo di hula hoop per orecchie. Lo Snob ci beccò mentre tentavo di staccarmi dall’orecchio sinistro di Stefania e vidi chiaramente il disgusto passare nei suoi occhi e sgattaiolare nel cervello.
Che strazio.
«Chiuda la porta.» Furono queste le primissime parole che mi rivolse. Si sedette alla scrivania e io rimasi interdetta, con la maniglia ancora stretta nella mano. Mi stava dando del lei?!
Ed ecco che il palo nelle retrovie, che gli ordinava di essere imbalsamato, emotivamente stitico, antipatico, completamente fuori posto e perfettamente stronzo, gli ordinò anche di sbuffare.
«Mi stai dando del lei?» chiesi, all’unico che potesse effettivamente rispondere a quella domanda.
«La domanda corretta è perché lei mi dà del tu.»
Mi venne istintivamente da piangere.
«Chiedo scusa, ma suo padre ci ha abituati a uno stile, diciamo, molto più informale.»
«E infatti non mi stupisco del fatto che il vostro fatturato sia pari a quello del negozio di caramelle in fondo alla strada.»
«Abbiamo un negozio di caramelle in fondo alla strada? Perché nessuno me l’hai mai d…»
«Non c’è nessun negozio di caramelle. Intendevo dire che questa agenzia fa schifo.»
Maledetto Snob.
«Quest’agenzia è nata meno di quattro anni fa ed è cresciuta in modo esponenziale, fino a raggiungere un guadagno più che soddisfacente. Non sa che c’è la crisi?» Mi stavo sforzando con ogni cellula del mio corpo per non ringhiare come un pitbull. Sbavavo, in compenso, come un San Bernardo.
Lui scoppiò a ridermi in faccia.
«Questa sarebbe la sua giustificazione per i guadagni al limite del plausibile? La crisi? Peraltro, non sapevo fosse anche un’economa, ero rimasto alla laurea in Comunicazione. Davvero utile.»
Un fastidioso prurito mi scalò il collo, pizzicandomi la pelle centimetro dopo centimetro. Era forse procurato dall’accusa di essere una personcina inutile? Mah.
«Considerando che gli altri non hanno nemmeno quella, direi che devo accontentarmi.» Con aria rassegnata, rimise in ordine una serie di cartelle colorate, che immaginai contenere i curricula e altre terribili informazioni sul nostro conto. Mi passò per la mente l’idea di raccontargli del mio secondo lavoro giusto per farlo finire in ospedale insieme al padre.
«Senta, continuerei tutto il giorno a disquisire con lei, ma ho del lavoro da fare. Quindi, se è tutto…», mi spostai di un passo verso l’uscita. Lui alzò la testa di scatto e un ricciolo gli si schiantò al centro della fronte. Lo rimise al suo posto, infastidito.
«Lavoro, sì. Dunque, da questo momento, lei diventa la mia assistente.»
«Abbiamo una stagista, Arianna, la cui scrivania si trova proprio fuori dalla sua porta. Io sono la copy.»
«Benissimo. Ma io sono il nuovo art director. Di conseguenza, e spero di ripeterlo per l’ultima volta, lei diventa la mia assistente.»
Pensai alla vivisezione del cervello umano e mi resi conto, per la prima volta, che il sentimento che animava gli sguardi dei miei coinquilini potesse non essere propriamente interesse scientifico.
«No, no, no. Frena un momento.» Elena interrompe il mio accorato racconto. «Che cazzo fa lui? Il direttore artistico?»
«Elena. Il direttore artistico va a Sanremo, lui voleva semplicemente fare quello che facevo io, ma dire copy non era abbastanza snob, quindi ha trovato un nome elegante per dire controllore dei contenuti. Capito?»
«Un cazzo. Ma vai avanti, che qui si fa notte.»
«Ditemi che voi avete capito…»
Gabriele annuisce e Sebastiano scuote la testa. Si guardano. Sebastiano annuisce e Gabriele scuote la testa. Meglio evitare domande inutili e continuare con il racconto.
«Ah. E lei lo sa fare?»
«Cosa? Controllare testi che iniziano con azienda leader nel settore dal 1954?»
Figlio di una grandissima puttana.
Ah, no. La signora Mordini è adorabile. Appunto mentale: chiedere se è stato adottato.
«Era una delle frasi che io e suo padre abbiamo deciso di bandire dall’agenzia.»
«Sì, molto nobile. Ma io non sono qui per sostituire mio padre, sono qui per fare di questa agenzia un’attività redditizia, crisi permettendo. Quindi mi porti un caffè e poi dica agli altri di prepararsi per una riunione. Ovviamente non abbiamo bisogno della centralinista con gli orecchini.»
La tristezza sostituì il prurito nella scalata verticale e raggiunse immediatamente i miei occhi. Puntai la porta e camminai il più velocemente possibile, per allontanarmi da quel fastidioso bipede boccoluto. Per la prima volta da quando avevo iniziato il mio secondo lavoro, pensai che lavorare in agenzia fosse solo un’occupazione temporanea.
Io ero una ballerina alcolizzata.
2 risposte a “Una zebra a pois – Leggi i primi capitoli in anteprima!”
Meraviglioso. Quando esce???
Domani!