La location di un romanzo è fondamentale, soprattutto nel caso del thriller. L’ambientazione giusta, il luogo in cui una storia prende forma, cresce e si insinua nella mente del lettore, è l’ingrediente principale a dare maggiore credibilità alla narrazione. Quando in un autore s’innesca l’idea per una nuova storia da raccontare, capire dove collocarla è un punto di partenza importante, è come dire al lettore: «Ehi, vieni con me, guarda intanto dove sei finito, che poi ti racconto il motivo.»
È stata la scena di un film a farmi venire l’idea di scrivere Eco dall’inferno: una ragazza che scappava da qualcosa di orribile, scalza in mezzo alla neve e che si lasciava alle spalle le proprie orme insanguinate. Quell’immagine, all’improvviso, mi ha fatto pensare a un lago ghiacciato nel quale erano imprigionate delle anime urlanti. Subito è balenata l’idea di un thriller, così ho cercato un filo conduttore che unisse la realtà al soprannaturale.
Cosa poteva essere stato reale e al contempo disumano? «Il Nazismo» mi sono detta.
Allora ho voluto creare un luogo in cui fossero state compiute azioni terrificanti sotto gli occhi di tutti, senza che se ne rendessero conto. Gli ho dato un nome: Grenze. Gli ho dato una collocazione geografica, una mappa, una cerchia stretta di abitanti, un monastero e soprattutto un passato agghiacciante.
Le montagne, che nascondevano, che sorvegliavano, che con il loro clima rigido, in inverno, spesso rendevano la quotidianità più complicata, tanto da isolare il paese per ore, o per giorni. Un confine tra Italia e Austria invalicabile, a Grenze ci si arrivava senza oltrepassarla, si poteva solo tornare indietro. Ho dato il compito a questi giganti silenziosi di custodire segreti, incubi, leggende e incomprensioni, lasciando che gli anni stratificassero nelle menti degli abitanti i ricordi, trasformandoli solo in un passato da dimenticare.
A Grenze ho voluto anche regalare una leggenda, qualcosa che le persone bisbigliavano di nascosto durante le battute di caccia e la raccolta della legna per l’inverno. Di nuovo, ho voluto che la realtà si mischiasse alla fantasia, in questo caso dannatamente brutale: anime urlanti che risalivano il sentiero lasciando orme insanguinate sul terreno. Le anime appartenevano ai corpicini ritrovati in fondo al lago? Così narrava la leggenda. I corpi realmente trovati, le anime che qualcuno raccontava di avere visto e sentito il lamento. Ma chi?
Nella mia Grenze, dunque, ho dipinto un lago. Una macchia di argento che si apriva all’improvviso in mezzo ai boschi, ai piedi delle montagne, un luogo tetro dentro a un paese sinistro. Un lago che toglieva il fiato, dove tantissime persone si recavano per vedere se la leggenda si sarebbe manifestata. Mistero, soprannaturale, curiosità e credenze popolari. Il paese che celava i segreti degli esperimenti nazisti, nel quale, scavando in profondità negli animi dei suoi abitanti, si ritrovava il suo alone di mistero. Nebbia, foschia, sole che moriva dietro le montagne, lupi che si lamentavano nelle notti grigie, sentieri non battuti, manciate di case in mezzo agli alberi, dove tutti si conoscevano, dove alcuni mentivano, dove altri si ignoravano, dove la realtà si fondeva perfettamente alle usanze e ai costumi di una comunità chiusa e rigida. Dove il vento freddo plasmava i lineamenti e irrigidiva gli animi. Dove la realtà sembrava davvero avere preso il posto della follia.
Ho voluto creare un luogo che affascinasse e che terrorizzasse, un posto che potesse rappresentare in pieno il carattere dei personaggi, che li potesse accogliere e rendere vividi quanto l’alone di mistero che gli aleggiava intorno. Ho pensato a Grenze come a un fantasma che si manifesta, e si crede di averlo visto, di cui tutti ne parlano, ma che nessuno ha il coraggio di ammettere che è reale.